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La storia di Souleymane, un viaggio adrenalinico: incontro con Boris Lojkine

Una splendida sorpresa del Festival di Cannes è arrivato in sala. Un rider africano gira a tutta velocità per Parigi, mentre si prepara per ottenere asilo politico. Una storia iper realistica dal ritmo di un thriller, di cui abbiamo parlato con il regista Boris Lojkine.

La storia di Souleymane, un viaggio adrenalinico: incontro con Boris Lojkine

Sfreccia per le strade del centro di Parigi. È della Guinea e fra due giorni avrà il colloquio cruciale per ottenere il permesso di soggiorno. La storia di Souleymane è un viaggio adrenalinico per una Parigi caratteristica, ma non turistica, splendida eppure cupa, insieme a un ragazzo come tanti alle prese con le sfide sempre diverse da affrontare per sopravvivere in una città occidentale con la pelle nera.

Vincitore di due premi nella sezione Un certain regard del Festival di Cannes, fra cui uno come miglior attore per il magnifico protagonista (non professionista) Abou Sangaré, è una delle belle sorprese della stagione del cinema francese ed ora è nelle sale per Academy Two, in contemporanea con la Francia. Ne abbiamo parlato con il regista, Boris Lojkine, in visita a Roma.

Dopo l’avventura di una francese in Africa raccontata in Camille, quella di un africano nel cuore di Parigi. Come nasce l’idea de La storia di Souleymane?

Il cinema è sempre stato prima di tutto una questione di avventura per me, di andare lontano per scoprire qualcosa. Ho realizzato dei documentari in Vietnam, è stato il caso di Hope in Nord Africa e di Camille nella Repubblica Centrafricana. Ciò che mi spinge nel cinema è lo sperimentare il decentramento improvviso. In altre parole, raccontare la storia di vite diverse dalla mia, guardare attraverso occhi diversi dai miei, cambiare la prospettiva, e mi sono detto che avrei potuto vivere un'esperienza di decentramento a Parigi e avrei raccontato non la sfida di Boris, ma quella di Souleymane, anche girando talvolta a 100 metri da casa mia. La storia di un mondo come quello dei rider, che sono sempre più presenti nella vita di tutti noi. La pandemia ha provocato in questo uno scatto in avanti, perché all'improvviso le strade di Parigi erano vuote e si vedevano in giro solo i rider loro.

È vero che a Parigi, come in molte grandi città, nel tardo pomeriggio la città si svuota dei lavoratori, che tornano a casa o bevono una cosa nelle terrazze, e si popolano dei rider.

Attraverso questo personaggio di rider continua il mio lavoro sui migranti e sulla migrazione, ma nel raccontare qualcosa di molto contemporaneo racconto anche della nostra società, del capitalismo digitale, di quella che in Francia chiamiamo ‘ubérisation’, uberizzazione. Ho l'impressione di essere giunto a non guardare più le cose con gli occhi di un uomo bianco, iniziando a vederle come un uomo nero. Ho trovato molto eccitante il tema ma anche le opportunità cinematografiche, con un uomo in bicicletta che va molto veloce attraverso la città, da un ambiente all'altro, molto precario sulla sua bicicletta. Sapevo fin dall'inizio, anche prima di scrivere la sceneggiatura, che sarebbe stato un film che sarebbe andato veloce e molto urbano. È stato molto eccitante, con una fotografia speciale, un po' scura, ma allo stesso tempo una vivacità, un desiderio di fare. Lui deve cercare di risolvere un problema e si muove con una frenesia incredibile.

Mostra una Parigi non consueta, vista spesso di notte, con i neon che si riflettono sull’asfalto bagnato.

Ho voluto filmare una Parigi che non vedo mai nel cinema francese, evitando il cosiddetto “film parigino”, che da noi identifica la storia di due borghesi in un caffè che parlano d'amore e basta. Non potrei fare un film del genere, non mi interessa, e con Souleymane ero tranquillo che non sarebbe stato così. Lui per un caffè sarebbe andato semmai da McDonald’s. Sono una geografia e una sociologia diverse. Abbiamo molto lavorato sul colore, volevo che piovesse sempre, ma la pioggia non la puoi controllare, non cade sempre quando vuoi. Parigi quando piove di notte è magnifica, perché le luci si riflettono e volevo un film ultra realistico che conservasse allo stesso tempo la sua bellezza plastica, senza estetismi. Abbiamo studiato molto come funzionano le varie comunità, i guineani, quelli della Costa d’Avorio o di altri paesi. Volevo smettere di guardare a tutti gli africani come africani e basta, perché ci sono congolesi, camerunesi, maliani, persone non necessariamente uguali, che si guardano l'un l'altro in un determinato modo. È come se tra europei dicessimo che gli italiani sono esibizionisti e sempre ben vestiti, i tedeschi sono un po' inquadrati, cliché nazionali del genere. Anche tra africani esistono queste stesse dinamiche, per esempio gli ivoriani sono i chiacchieroni di città, anche un po' imbroglioni, mentre i guineani sono un persone tradizionali, un po' tirchie.

La ricerca di Suleymane è stata immagino complessa, in cerca del volto giusto.

Abbiamo cercato a lungo. Siccome cercavo un rider guineano, è in quella comunità che abbiamo iniziato. La mia direttrice del casting è molto particolare, proviene dal mondo dei documentari e fa solo casting selvaggi e non professionali. Così siamo usciti per strada e rapidamente abbiamo capito che c’è una geografia dei fattorini, con delle basi nazionali. A poco a poco li abbiamo conosciuti quasi tutti. Dopo due mesi e mezzo, un giorno siamo arrivati ad Amiens, una piccola città nel nord della Francia, dove un'associazione aveva riunito 25 giovani guineani per noi. Uno di loro non si è presentato, perché si era impegnato per riparare un auto. Tornando a Parigi, alla stazione questo ragazzo ci raggiunge all’ultimo momento. Era il nostro Souleymane, Abou Sangare. Abbiamo fatto delle improvvisazioni e aveva qualcosa di speciale, ci ha raccontato la sua commovente storia, che è stata molto utile nella scena finale del colloquio per ottenere l’asilo politico.

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