Indiana Jones e la maledizione dell'Ultima Crociata: le radici del Quadrante del Destino e del suo paradosso
Indiana Jones e il Quadrante del Destino è al cinema, con Harrison Ford che a 80 anni interpreta ancora il protagonista in un film d'azione, confrontandosi col tempo. Forzato, sulla carta. Ma come siamo arrivati a questo? E se la "colpa" fosse di un capolavoro? Ecco perché secondo noi il Quadrante del Destino non aveva scelta.
- Indiana Jones, cominciò tutto come James Bond 007
- Indiana Jones e la svolta dell'Ultima Crociata
- La maledizione dell'Ultima Crociata e il Teschio di Cristallo
- Harrison Ford spinto in un angolo
- Indiana Jones e il Quadrante del Destino non fa prigionieri
"Indiana Jones e la patente revocata": scelgo questa battuta come rappresentativa di un umorismo che, all'indomani dell'uscita di Indiana Jones e il Quadrante del Destino, sta guadagnando nuova forza e ha avuto quasi vent'anni per allenarsi, sin da quando si cominciò a parlare del quarto film della saga, poi Indiana Jones e il Regno del Teschio di Cristallo, uscito nel 2008. La presa in giro dell'ottantenne Harrison Ford è anche una reazione del pubblico alle major che insistono nel ripescare miti legati al passato, "senza sapere quando smettere". Al di là dell'innegabile tendenza generale, ha senso nello specifico però che Il Quadrante del Destino sia impostato così? Cos'è la saga di Indiana Jones? Perché a un certo punto un recasting di Indy è diventato inaccettabile?
Indiana Jones, cominciò tutto come James Bond 007
Steven Spielberg l'ha raccontato più e più volte: quando George Lucas gli rivelò l'idea di I predatori dell'arca perduta, lui stava confidando all'amico quanto gli sarebbe piaciuto dirigere un James Bond 007, ingaggio che non era mai riuscito a ottenere. Che coincidenza: George stava pensando proprio a un "James Bond", solo che questo era un archeologo.
Ora che abbiamo legato per sempre Indiana Jones a Harrison Ford, riesce difficile ripensare a quella radice "alla 007" del personaggio e della saga: una serialità senza una continuity forte nei decenni, una flessibilità nel casting del protagonista, tante avventure che giocano su un protagonista stereotipato e abbastanza rigido. O al limite reso leggermente più debole ma poi eliminato in attesa di un riavvio, com'è successo a Daniel Craig (che comunque ha interpretato ben cinque film in quindici anni, rimanendo più o meno simile).
Eppure la saga di Indiana Jones era partita proprio con quelle intenzioni: il prof. Jones nei Predatori e in Indiana Jones e il tempio maledetto era uno stereotipo fermo nel tempo e in un'età compatibile con la prestanza fisica, in due avventure molto diverse tra loro, con partner femminili differenti, comprimari e atmosfere non paragonabili. Un territorio creativo molto libero, concepito da nerd del cinema, nel quale sperimentare variazioni sul tema e divertirsi, una zona franca in cui Steven Spielberg, George Lucas, Harrison Ford e i loro amici potessero abbracciare un'eterna adolescenza, lo spirito di Peter Pan che non a caso poi Steven avrebbe raccontato sul serio in Hook (1991). Affetto del pubblico a parte, che avrebbe sconsigliato l'idea per questioni di incassi, in linea teorica la saga di Indiana Jones fino al Tempio Maledetto, per l'anima che aveva, avrebbe potuto ospitare un attore diverso nei panni di Indiana. D'altronde, la prima scelta per il ruolo era stata Tom Selleck, nemmeno Ford. Alla fine degli anni Ottanta però accadde qualcosa che la mutò... geneticamente.
Indiana Jones e la svolta dell'Ultima Crociata
Come ci racconta il libro di interviste "Spielberg su Spielberg", alla fine degli anni Ottanta George Lucas tornò a proporre un Indiana Jones a Steven Spielberg, però con l'intenzione di giocare più sul sicuro. Facciamo notare che Star Wars era parcheggiato dai tempi del Ritorno dello Jedi (1983), e la Lucasfilm aveva incocciato anche flop cocenti come Labyrinth o Howard e il destino del mondo. George non era più a scatola chiusa garanzia di soldi facili per i suoi finanziatori. Allora era meglio tornare alla formula dei Predatori: Indy contro i Nazisti, un oggetto da ritrovare di sapore biblico, Marcus, Sallah.
Spielberg era perplesso e lo frenò.
Vedeva nella proposta un mascherato timido remake dei Predatori, giusto con il Graal al posto dell'Arca. Poco stimolante. Superfluo. Steven decise di intervenire nel progetto più pesantemente del solito... e ci mise se stesso, come non aveva mai fatto fino a quel momento. Specialmente se avete visto The Fabelmans, non dovreste avere dubbi su chi possa essere stato la mente dietro al babbo, a questo Henry Jones Sr. di Indiana Jones e l'ultima crociata (1989), a questo confronto tra figlio e padre, nell'ingombro dei non detti. E siccome Spielberg è un tipo da questioni di principio, quale miglior modo di coniugare la propria poetica con uno sfizio? Perché non confrontare direttamente Indy con lo 007 che aveva sempre voluto dirigere? Perché non chiedere a Sean Connery di interpretare Henry Sr.? Ecco la quadratura del cerchio che Spielberg stava cercando per il film. Suggestionato dall'idea, Lucas ripensò il prologo per mettere in scena una compressa origin story (un fanservice ante-litteram) ambientata nel 1912, mostrandoci Indy da ragazzino, interpretato da River Phoenix. Il concetto di "padre" richiamò subito quello di "infanzia"...
Il danno era fatto. Un danno meraviglioso, regalandoci quel film al quale siamo tutti affezionati.
Con un papà e un trascorso giovanile, con un passato persino messo in scena, Indiana Jones da personaggio stereotipato divenne una persona. E una persona, si sa, non è ferma nel tempo: sboccia, trascorre... e prima o poi finisce. Ford si adeguò, umanizzò e addolcì la sua interpretazione, aggiornando quindi Indy a se stesso come non aveva di certo fatto col più monocorde Han Solo. A Spielberg molto probabilmente non interessavano le conseguenze di quelle decisioni: non si pensava alle saghe tramite "fasi" a lunghissimo termine in stile Kevin Feige e Marvel Studios. Per giunta - come ebbe modo di dichiarare - l'inquadratura col tramonto al termine dell'Ultima Crociata aveva un simbolismo voluto, era il suo modo di dire a George "Ci eravamo ripromessi che, se il primo fosse andato bene, avremmo fatto una trilogia. Promessa mantenuta. La chiudo qui." Con l'Indiana Jones più spielberghiano di tutti. Ci stava.
La maledizione dell'Ultima Crociata e il Teschio di Cristallo
George Lucas cercò di leggere il successo dell'Ultima Crociata e di investirvi, amplificando a dismisura la sua dimensione passata e costruendovi la serie tv educational delle "Avventure del Giovane Indiana Jones" nella prima metà dei Novanta: avrebbe avuto senso seguire la strada impostata dal compianto River Phoenix nel prologo del terzo film, ma non funzionò come previsto. L'intimità dolce dell'Ultima Crociata aveva fuso Ford così tanto con un personaggio tratteggiato in modo molto più umano di altri eroi d'azione, che il pubblico non accettava Indiana senza Harrison (né aiutava il registro diverso della serie). Il suo cammeo cinquantenne nell'episodio "Il mistero del blues" (1993), girato al volo dopo un appello disperato di George, in una barbuta pausa dalle riprese del Fuggitivo, confermò quanto mancasse la persona Ford nella persona Indy. E accese una scintilla nella mente di George: Harrison più vecchio, Indiana più vecchio. Perché non provarci anche al cinema proprio con lui? Abbiamo iniziato con l'Ultima Crociata, continuiamo a seguirlo nel trascorrere del tempo.
Spielberg fu preso in contropiede. Ma il tramonto? L'addio? Non avevamo chiuso?
Cosa ancora più ardua da digerire, Lucas si era convinto che un McGuffin che coinvolgesse alieni, per omaggiare un'epoca diversa caratterizzata da quei temi, gli anni Cinquanta, fosse perfetto per il quarto capitolo. Steven disse scherzosamente che fece di tutto per mettere in stallo il progetto: quando uscì ed esplose Independence Day (1996), spiegò a Lucas che dovevano lasciar perdere, altrimenti tutti li avrebbero accusati di voler cavalcare il successo del film di Emmerich (come raccontato nel libro "The Complete Making of Indiana Jones"). Ce l'aveva quasi fatta, aiutato dalla distrazione di George con i prequel di Star Wars (1999-2005). Ma dopo La vendetta dei Sith, George tornò alla carica. E alla fine Indiana Jones e il Regno del Teschio di Cristallo nacque nel 2008, frutto di un disperato tira e molla, che poco dopo Lucas descrisse così al Times:
Abbiamo ancora divergenze sulla direzione che vorremmo prendere. Io sono nel futuro, Steven è nel passato. Sta cercando di riportarlo a com'era, io lo sto spingendo in un luogo del tutto diverso. C'è ancora una tensione tra noi. Quest'ultimo è nato così, è un po' un ibrido delle nostre due idee.
Indiana Jones e il Regno del Teschio di Cristallo era davvero già qualcosa di diverso rispetto alla trilogia. Il fantasma dell'Ultima crociata aleggiava e il film non poteva più comportarsi come la saga aveva fatto. Nel Tempio Maledetto non si parlava dei personaggi dei Predatori, nell'Ultima crociata si ignoravano quelli del Tempio Maledetto. Nel Teschio bisognava assolutamente dire che Henry Sr. e Marcus non c'erano perché morti, il pubblico non avrebbe accettato che venissero ignorati. E addirittura si recuperava la Marion di Karen Allen, anche lei estratta dalle figure eterne e scagliata nel fluire del tempo. Se Indy ormai clamorosamente invecchiava, l'elemento familiare e parentale doveva essere ribadito: al posto del padre apparve allora... un figlio, che inaugurò la tradizione della spalla di Indy odiata a prescindere, in quanto non-Sean Connery (la maledizione colpisce ancora). George si scatenò con gli "esseri intradimensionali" e l'atmosfera sci-fi anni 50, mentre Steven cercò di compensare lo spaesamento rendendo Indiana vecchio solo a parole. Perché forse non era mai stato invulnerabile e indistruttibile come nel Teschio di Cristallo! Un braccio di ferro fatto film, con Harrison Ford in mezzo, senza paura, senza ritocchi, tirato ora dall'amico George, ora dall'amico Steven.
Harrison Ford spinto in un angolo
Dal 2008 a oggi è successo l'impensabile: George Lucas si è chiamato fuori dai giochi, vendendo la sua Lucasfilm alla Disney nel 2012. Prima che si mettesse in cantiere un quinto Indiana Jones nel 2016 diretto da Spielberg e interpretato da Ford, il marchio ha vissuto in un limbo fatto di voci di recasting, misteri e sussulti, ben espressi dalle incerte parole del CEO Disney Bob Iger, nell'estate 2016 a Hollywood Reporter: "Ora come ora ci stiamo concentrando su un reboot, o meglio una continuazione e poi un reboot di qualche tipo. Cioè, tornerà Harrison Ford, poi dovremo capire cosa verrà dopo. Ecco cosa voglio dire. Non è proprio un reboot, è un... boot? Non lo so." La maledizione dell'Ultima Crociata aveva travolto persino un megamanager come Iger: quanta difficoltà nell'estrarre Indiana Jones fuori dal tempo, fuori da Harrison Ford, per assicurargli la sfruttabilità infinita alla quale punta una multinazionale. La preparazione assai sofferta, combattuta, culmina in un colpo di scena nel febbraio 2020: Steven lascia il film da regista, fungendo da executive producer.
Harrison rimane solo.
Ha una sola via d'uscita, suggerita da una chiacchierata con James Mangold, poi a sua stessa sorpresa indicato da lui come regista per sostituire Spielberg: abbandonarsi alle conseguenze concrete e reali del trascorrere del tempo. La reazione a catena che Spielberg e Lucas avevano innestato con l'Ultima crociata, e che il primo aveva disperatamente cercato di frenare nel Teschio di Cristallo, arriva al culmine e Steven deve aver alzato le mani: Ford a questo punto vuole mettere in scena proprio la terza età di Indiana. Vuole portare a termine il processo di umanizzazione del suo ex-007, si carica il film sulle spalle, sia fisicamente sia emotivamente.
Indiana Jones e il Quadrante del Destino non fa prigionieri
Un film epico d'azione con un protagonista ottantenne dolente e malinconico è sulla carta una follia e ho il timore che, previsioni degli incassi alla mano, lo si rivelerà anche all'atto pratico. Altro che major che gioca sul sicuro: forse la Disney ha pensato di farlo, ma Kathleen Kennedy (presidente della Lucasfilm), Frank Marshall (producer) e lo stesso Spielberg, il vecchio clan, ha scommesso più che su Indiana Jones sul legame del pubblico con un artista e un simbolo. Non c'è alcun cinismo in un azzardo del genere, ammettiamolo. C'è semmai una dimensione privata, un'identificazione ingenua dolce e protettiva, che abbiamo visto di rado: nel 2006 Sylvester Stallone rilanciò se stesso con Rocky Balboa, celebrando il dolore del suo ex-pugile e il suo. Nel 2021 Jason Reitman si è confrontato con suo padre Ivan dirigendo Ghostbusters Legacy, dedicato a Harold Ramis, un membro della "famiglia" scomparso, nel film e nella vita vera. Ma Rocky Balboa costò una ventina di milioni di dollari, era un'opera "indie". Ghostbusters Legacy usava i vecchi acchiappafantasmi solo per dei cammei, proponendo un cast di giovani. E in casa Lucasfilm, Han, Luke e Leia sono apparsi nella nuova (confusa) trilogia più per principio che per necessità.
Qui c'è qualcosa di diverso. Indiana Jones e il Quadrante del Destino, vi prego di notarlo, vi piaccia il film o meno, non fa prigionieri... e per questo è incredibile: mette 300 milioni di dollari di budget sulle spalle eroiche (da quanti punti di vista!) di un mito del cinema come Harrison Ford, scivolato nel ruolo di referente ultimo del progetto e "autore" suo malgrado, non avendo per principio mai voluto né scrivere né dirigere. E Indiana finalmente prende di petto la maledizione dell'Ultima Crociata: un altro rapporto genitoriale (con una figlioccia, in questo caso) segna ancora il teso rapporto tra le generazioni. Indiana si scontra drammaticamente, ormai da essere umano al 100%, con Helena che rappresenta il fantasma di quel personaggio un po' nero e senza pensieri, "alla 007", che Indiana Jones sarebbe dovuto essere. Ma è diventato qualcosa di più, per l'impossibilità delle persone coinvolte di avere verso di lui e le sue avventure il distacco freddo dei professionisti del boxoffice. In quarant'anni abbiamo vissuto qualcosa di veramente speciale e forse irripetibile: il Quadrante del Destino prova a spiegarcelo.
John Williams, componendo l'intera colonna sonora a 90 anni, ce lo fa capire senza dire mezza parola.