State of Play - la recensione del film con Russell Crowe

27 aprile 2009
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Avvincente e compatto nonostante la durata (e qualche sbavatura nella proliferazione dei finali), State of Play è un più di un buon thriller: è un film che trasuda professionalità in tutti i reparti e che ragiona in maniera nostalgica ma non conservatrice sui cambiamenti del mondo dell'informazione contemporanea.

State of Play - la recensione del film con Russell Crowe

State of Play - la recensione

State of Play è uno di quei film che riescono a mediare al meglio le esigenze della spettacolarità e dell’intrattenimento legate a certo tipo di cinema con la necessità di raccontare qualcosa di un po’ più spesso e sensato della storiellina che si guarda e passa di troppi titoli hollywoodiani e non solo. Ci riesce grazie alla solidità del suo impianto e alla mancanza di ogni forma di pedanteria nell’affrontare le tematiche che propone. Kevin Macdonald aveva già fatto vedere di che pasta fosse fatto, e questa volta si può appoggiare ad una sceneggiatura - basata su un serial omonimo della BBC - sulla quale hanno messo le mani gente come Matthew Michael Carnahan, Tony Gilroy e Billy Ray.
Che poi Brad Pitt, inizialmente scelto per il ruolo del protagonista, abbia abbandonato il progetto e sia stato sostituito da Russell Crowe è stata solo una fortuna (altro discorso è quel Ben Affleck finito al posto che era di Ed Norton): ché l’australiano è in gran forma – attorialmente parlando – ed è perfetto nella sua indolente ed energica gigioneria sovrappeso nei panni del reporter Cal McCaffrey.

E lo stile recitativo e la fisicità di Crowe, specchio di quanto il suo personaggio è deputato a simboleggiare,sono fondamentali in un film che – tolti gli intelligenti richiami a certi conspiracy thriller degli anni Settanta o quelli, più contemporanei, al neonato filone dei finance thriller – è fondamentalmente e principalmente un affettuoso e nostalgico canto del cigno della carta stampata e del giornalismo "di una volta". Perché è evidente che al di la della trama gialla, della lotta interiore di McCaffrey tra il rispetto per il ruolo di amico e quello di giornalismo, del rapporto sfumato e complesso tra il giornalista e la moglie del politico, della ricostruizone dei meccanismi occulti e non di Washington (tutti elementi tratteggiati comunque con grande attenzione ed efficacia), il cuore di State of Play sta tutto nel (non) dualismo tra il personaggio di Crowe e quello di Rachel McAdams, una blogger dell’edizione online del quotidiano per il quale entrambi lavorano, il Washington Globe.
McCaffrey è una vecchia volpe della carta stampata, di quelli che sanno trattare e mettere al loro posto tanto le fonti quanto i direttori, ruvido, sporco, ma affascinante proprio come la carta di un giornale fresco di stampa. Della Frye è invece apparentemente asettica e pulitina, ma in realtà pungente e agguerrita, come certe pagine da leggere online. Certo, le manca forse un po’ d’esperienza e di malizia, ed è per questo che diventerà l’ombra di un Cal destinato a diventare mentore.

In un film che esce in un periodo come questo, dove realmente i quotidiani chiudono per mancanza di fondi, dove sono i blogger ufficiali e non a fare soldi e informazione, dove la stampa pare sempre di più aver abdicato al ruolo di watchdog dei poteri forti per appiattirsi su un velinismo più o meno mascherato, State of Play è un film a suo modo importante. Cal e Della sono le incarnazioni di due culture solo apparentemente antitetiche, poiché solo nella reciproca accettazione e nel loro imbastardirsi costruttivo e propositivo, quel mondo comune alle quale entrambe appartengono potrà continuare a ribadire ruolo e importanza.
Per questo, nonostante in apparenza le posizioni del film riguardo il giornalismo e la sua evoluzione possono sembrare eccessivamente conservatrici e nostalgiche, è evidente che Macdonald non vuole restaurare né accusare: vuole solo rendere omaggio a quello che è stato, invitare a non dimenticarlo, a perpetrarlo, anche se in forme nuove, non analogiche ma digitali.

E il simbolico passaggio di consegne del finale, seguito da titoli di coda quasi commoventi nella loro nostalgica sincerità, sta lì a dimostrarlo.



  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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