F1, la recensione del film: il blockbuster perfetto per i tempi in cui viviamo
Joseph Kosinki l'imbrocca di nuovo: dopo Top Gun: Maverick, di cui questo F1 è una sorta di gemello, riesce a fondere l'impianto e le immagini del cinema contemporaneo con la tradizione di un passato che non è solo nostalgica ma garanzia di ricchezza narrativa. La recensione di F1 di Federico Gironi.
Ti acchiappa fin dall’inizio, F1. Si parte col montaggio alternato tra alcune immagini di camera-car della Formula 1 anni Novanta (c’è una McLaren che è chiaramente quella di Ayrton Senna, mentre l’auto dalla quale provengono le immagini ha la livrea gialla e lo sponsor Camel che furono di Lotus prima e Benetton dopo) e le onde dell’oceano che si vanno a infrangere su una spiaggia.
Poi Sonny, ovvero Brad Pitt, si sveglia stropicciato e fichissimo nel suo van disordinatissimo van, esegue un rituale di preparazione che coinvolge calzini, orologi e carte da gioco che vedremo più volte nel film, esce, sale sulla sua auto e fa vedere a tutti - noi spettatori compresi - di che pasta è fatto sulla pista della 24 ore di Daytona, mentre dalle casse della sala i Led Zeppelin esplodono “Whole Lotta Love”. Poi Sonny scende dall’auto, torna a dormire, si fa svegliare a corsa finita e vinta, e riparte senza nemmeno prendere in mano la coppa (ma i soldi sì) verso l’orizzonte, come il cowboy solitario e ribelle che è.
Quel che succede un po’ lo sapete già (Sonny, che aveva avuto un terribile incidente 30 anni prima, viene richiamato nel Circus iridato da un suo amico diventato proprietario di un team che è un po' in difficoltà), un po’ lo potete immaginare. Ma quello che è importante dire è che il film di Joseph Kosinski si mantiene praticamente sempre al livello di questo inizio, e che mai in un momento nelle sue due ore e mezza di durata fa calare l’attenzione del suo spettatore.
Sonny è un pilota cowboy, l’abbiamo detto. Glielo dice anche Kate, la direttrice tecnica - prima donna a rivestiere un ruolo tale nel mondo maschile e un po’ maschilista della Formula 1 - del team APEXGP, che finirà anche per diventare vittima del fascino di Sonny, ma che è un personaggio femminile niente male. E qui va aperta una parentesi. Perché a interpretare Kate è l’attrice irlandese Kerry Condon, e questa è una scelta di casting che dimostra l’approccio maturo e intelligente che c’è stato alla produzione di questo film. Perché Condon, che è un’attrice brava, ed è indubbiamente una bella donna, non è il nome di richiamo - per status divistico o sfacciato appeal sessuale - che ci si sarebbe potuti aspettare, ma la scelta giusta per il ruolo giusto (e ben scritto): anche dal punto di vista anagrafico. Chiusa parentesi.
Sonny è un pilota cowboy, dicevamo, e questo spirito western sottende a tutto F1, che è un film che ha la capacità di offrire al pubblico tutto quello che ci si dovrebbe aspettare da un vero blockbuster contemporaneo: spettacolo cinetico e cinematografico di altissimo livello tecnico, certo, e qui le corse automobilistiche sono riprese come mai prima d’ora (ma la F1 è raccontata non solo come pura esibizione di velocità, pericolo, abilità al volante, ma come sport complesso, nel quale il team è fondamentale, e ancor più fondamentale sono strategie e tattiche: e quindi, il pensiero) che ha anche la capacità di raccontare una storia, dei personaggi, delle relazioni. Anche se, e in qualche modo non poteva esser altrimenti, questa storia, questi personaggi e queste relazioni portano con loro tutta la retorica di un certo cinema sportivo che parla di riscatto e redenzione.
In qualche modo, F1 è da molti punti di vista il film gemello di Top Gun: Maverick, ma Kosinski e Ehren Kruger (sceneggiatore e soggettista assieme a Kosinski) sono bravi abbastanza da farla sembrare un’altra storia, mentre la segui.
Certo, ci sono sempre il veterano stropicciato e insofferente alle regole che deve fare da mentore al novellino talentuoso e arrogante (che qui è il JP di Damson Idris), ma per il resto, e oltre al contesto, ci sono anche numerose differenze. L’altra questione che rimane uguale, però, è che è centrale, è quella ideologica, sia dal punto di vista del racconto che del cinema: perché come Cruise nel suo Top Gun, Kosinski ha fatto del Sonny di Pitt non solo un protagonista, ma il virus benigno che è capace di contaminare il presente, riportandoci dentro quel che è andato perduto (soprattutto quindi l’elemento umano e analogico) e depurandolo al tempo stesso da certi eccessi e certe superficialità tutti digitali e figli della dittatura (effimera) dei social, del virtuale, di un'idea di celebrità che è il contrario del concetto di divismo.
E se allora Sonny è in grado di far maturare JP, quel passato un po’ nostalgico ma assolutamente funzionante e funzionale che rappresenta è quello che Kosinski usa per dare solidità e struttura - concretezza mi viene da dire - a un film che senza quello sarebbe stato solo un’evanescente esibizione di tecnica fine e sé stessa e, alla fine, stancante.
F1, insomma, è il film che attualizza dal punto di vista dell’immagine e delle potenzialità spettacolari del cinema del presente quell’idea di blockbuster che, del cinema, ha fatto innamorare tantissimi di noi quando eravamo ragazzini, e che nel film di Kosinski ritroviamo il potenziale di coinvolgimento, la passione e l’epica, chi se ne importa se magari fuori misura o ridondante.
Qualche tempo fa nel corso di un’intervista Jerry Bruckheimer, che è produttore (anche) di questo film, mi aveva detto che per lui “Non conta la dimensione di un progetto ma la storia, e i personaggi", perché è da lì che arrivano le emozioni, è grazie a quello che “la gente che esce del cinema con le lacrime agli occhi, ed è per questo che facciamo i film”. Ora, non farà uscire con le lacrime agli occhi forse, F1, ma che non si esca dal divertiti, elettrizzati, emozionati, coinvolti, abbracciando un’ingenuità e un’entusiasmo che a volte sono benefici se non necessari, può voler dire una cosa sola: che non è il cinema che sta morendo, oggi, ma è il suo pubblico.
Un pubblico non più capace, allora, di vivere con emozione una la storia e i suoi personaggi, personaggi che qui sono così semplici, così dritti, così esemplari da essere universalmente comprensibili, da chiunque, senza che questo li renda figurine asettiche, senza che li privi del calore del sentimento e dell’umanità. Un pubblico che, allora, ha perso contatto con un quella parte di sé capace di abbandonarsi al godimento di quel genere di spettacolo che tiene assieme emozione e sentimento: pancia, cuore, ma anche un po' di testa.
Che poi, una volta terminato il campionato, una volta che il nostro protagonista ha ottenuto la sua riscossa e la sua redenzione, sia bello vederlo tornare a cavalcare di nuovo, solitario, verso il tramonto, verso un nuovo orizzonte fatto di altre auto, altri volanti, altri mondi ben meno luccicanti e miliardari di quello della Formula 1, beh: è solo giusto, solo bello, solo coerente che quello che F1 vuole e riesce a essere: un film sportivo di stampo tradizionale, un blockbuster moderno che fa assorbe le lezioni e le influenze di linguaggi audiovisivi come il videogame e la pubblicità, un western scanzonato con protagonsita uno smaliziato e anarchico antieroe. Un perfetto esempio di come la tradizione della Hollywood di ieri possa far progredire la Hollywood di oggi.
Poi certo, F1 è anche un’astutissima e smaccatissima operazione di marketing: ma il cinema e l'intrattenimento non ne risentono, e questo è quello che conta.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival