Berlin Syndrome: recensione del thriller con Teresa Palmer presentato al Festival di Berlino 2017

15 febbraio 2017
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Un thriller psicologico e non solo dove con una brava protagonista (e anche bella). Sarà presto su Netflix.

Berlin Syndrome: recensione del thriller con Teresa Palmer presentato al Festival di Berlino 2017

Ci sono tante cose che non ci si spiega, in Berlin Syndrome.
Senza tirare in ballo la cosa più evidente, un buco di sceneggiatura nel finale che nemmeno le martoriate strade di Roma, e che però non sto a spiegare per non incorrere nel mortalissimo peccato dello spoiler, si potrebbe cominciare col dire che non si capisce perché, all'inizio del film, Teresa Palmer sia così abbattuta e spaurita.
Non si capisce perché, all'improvviso, sceglie di seguire con cieca fiducia il ragazzo appena conosciuto che poi si trasforma nel suo carceriere, né perché il suo tentativo di fuga sia così blando (anche qui, no spoiler) e non colga le poche occasioni che le si parano di fronte.
E non venitemi a parlare di sindrome di Stoccolma, per favore. Come sarebbe da stendere un velo pietoso sull'accenno alle motivazioni del maniaco di turno, rimasto sotto alle privazioni collettiviste della sua vita nella DDR.

Colpe, queste, che sono sicuramente più imputabili a Shaun Grant, sceneggiatore di questo thriller tratto da un romanzo omonimo di Melanie Joosten, che non alla regista Cate Shortland: che però una controllatina in più al suo materiale poteva pure darla.
C'è d'altronde anche che da dire che la regista australiana ha fatto un buon lavoro nel tenere abbastanza alta la tensione in un film dove di cose che succedono davvero ce ne sono pochissime, e dove tutto si gioca sull'elettricità a bassa tensione tra la giovane prigioniera e l'uomo che l'ha rinchiusa in casa per tenersela tutta per sé: sulla difficile e perversa ricerca di una connessione emotiva quando non sentimentale, e sul senso di minaccia incombente che accompagna ogni loro relazione.

Messa da parte l'aria spaesata e dimessa delle prime scene, quelle in esterno, in una Berlino un po' troppo cartolinesca, anche Teresa Palmer dà un contributo notevole e significativo nel tenere sopra la linea di galleggiamento i livelli della tensione e della minaccia: non solo per la generosità con cui si mette in scena fisicamente (che poi è anche un bel vedere, va detto), ma azzeccando un difficile equilibrio tra fragilità e determinazione, tra abbandono e sopravvivenza, crollo e voglia di reagire.
Che si muova all'interno degli spazi dell'appartamento di cui è prigioniera, o che  gli vengano concesse episodiche sortite all'esterno (come quella quasi fiabesca, nera e visivamente riuscita in un bosco), il personaggio della Palmer naviga sfumature evitando il banale, e la Shortland la segue alla giusta distanza, senza morbosità inutili ma senza nemmeno dimenticare l'erotismo un po' perverso.

Siamo lontani, insomma, dal torture porn, o dalle certe sadiche sconcezze psicologiche del cinema più "autoriale" che si cimenta con storie di questo tipo: con Berlin Syndrome, che pure guarda allo psicodramma e non cede alle lusinghe di un horror che è dietro l'angolo, rimaniamo comunque dentro i confini di un cinema sì di genere (e con un certo orgoglio), ma che vuole fare dei personaggi il suo punto forte.
Poi, certo, c'è quel cratere di sceneggiatura nel finale che davvero ti fa gridare vendetta: ma il primissimo piano della Palmer che guarda fuori dal finestrino, finalmente libera, addolcisce un po' (ma solo un po') la pillola.



  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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