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Interviste Cinema

Gianfranco Rosi e Pietro Bartolo, regista e protagonista di Fuocoammare: "una testimonianza pubblica della tragedia in corso"

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Il regista di Sacro GRA e il medico di Lampedusa parlando del film e dell'emergenza dei rifugiati vista da chi vive in prima linea sull'isola siciliana.

Gianfranco Rosi e Pietro Bartolo, regista e protagonista di Fuocoammare: "una testimonianza pubblica della tragedia in corso"

Per parlare a un ristretto gruppo di giornalisti italiani di Fuocammare, in una mattinata berlinese, c'erano il suo regista Gianfranco Rosi e il dottor Pietro Bartolo, il medico di Lampedusa che da oltre vent'anni,oltre che degli isolani, si occupa in tutto e per tutto dei vivi e dei morti che sbarcano sull'isola: uno dei protagonisti del film, e qualcosa di più.
Pietro è quello che mi ha convinto a fare questo film,” spiega Rosi. “Dopo quasi un mese di sopralluoghi a Lampedusa, pensavo che fosse impossibile da realizzare. Poi una bronchite me lo ha fatto incontrare: dopo la visita, abbiamo parlato per più di due ore, lui non sapeva chi fossi, gli ho raccontato il mio progetto, i miei dubbi, e allora ha tirato fuori una chiave USB e mi ha mostrato alcune delle foto degli sbarchi e dei rifugiati fatte nel corso degli anni. Mi ha consegnato la chiavetta, io l'ho portata con me a Roma e ne ho guardato l'intero contenuto con calma. Così ho capito quello che dovevo fare.”
Anche nel film c'è una scena nella quale Bartolo mostra a Rosi le foto al computer, e le commenta con struggente dolore. Una scena che è stata girata solo lo scorso 13 gennaio, a film già invitato a Berlino. “Sentivo che al film mancava qualcosa,” dice il regista. “Allora sono tornato da Pietro, e abbiamo girato quella scena, che in qualche modo ha chiuso un cerchio, mi ha riportato alla sua origine. Nella stessa occasione ho anche girato un'altra scena, che causalmente ha fatto risuonare nuovamente la parola che dà il titolo al film, Fuocoammare.”

In origine pensato come un corto commissionato dall'Istituto Luce, Fuocoammare è stato girato e montato da Rosi nel corso di una permanenza a Lampedusa durata dal 26 dicembre 2014 al 13 gennaio del 2016, durante la quale si è in qualche modo "costuito da solo".
Quando arrivai a Lampedusa il centro di accoglienza era chiuso, e per mesi non ci sono stati sbarchi: allora ho iniziato a raccontare la Lampedusa che nessuno ha visto, l'identità dell'isola,” dice Rosi. “Siamo stati quasi invisibili, nessuno ci ha visto filmare e mi chiedevano tutti quando avrei iniziato. Grazie a Peppino, il mio aiuto regista lampedusano, mi sono state aperte le porte dell'isola, e nel tempo ho iniziato a incontrare quelli che poi sono diventati i personaggi del film: prima Pietro, poi ho capito che avrei avuto bisogno di un bambino e ho incontrato il giovane Samuele, e lui mi ha condotto allo zio pescatore, poi il dj della radio locale, che mi ha portato al personaggio di Maria. In quei mesi invernali, privi di sbarchi, quello che avveniva delinava piano piano un racconto sottostante, di attesa, simbolico del nostro stato d'animo nei confronti dell'immigrazione.”

Quando poi il centro di accoglienza è stato riaperto, e sono ricominciati gli sbarchi, Rosi, racconta, si è approcciato ai rifugiati “con timore e con pudore. Al centro sono stato poco, quando ho filmato la scena del gospel improvvisto da un gruppo di nigeriani che raccontano il loro viaggio, ho capito che avevo già tutto quello di cui avevo bisogno. Poi ho passato quasi un mese su una nave militare, rendendomi conto che ero lì in prova, e difatti non è accaduto nulla. Solo quando mi sono imbarcato di nuovo, ho avuto la possibilità di partecipare alle operazioni e di filmarle. È successo di tutto, e ho avuto il massimo supporto da parte di tutto l'equipaggio affinché fossi testimone necessario, e non un voyeur, di quello che accadeva. La tragedia che racconto alla fine del film,” prosegue, “me la sono trovata letteralmente davanti. Fu il comandante della nave a spingermi ad andare a filmare nella stiva del barcone, dove c'erano oltre 40 morti: mi diceva che era necessario rendere pubblica questa testimonianza della tragedia in corso. Un tragedia che ci viene solitamente raccontata attraverso i numeri, spersonalizzanti, per la quale nessuno fa nulla: tantomeno la politica. E io non volevo i numeri: per me era importante vedere i volti, gli occhi, gli individui.”
Per questo, anche, Gianfranco Rosi pensa che quello di Berlino fosse il festival giusto per Fuocoammare, “un film che non è politico ma che ha una valenza politica. L'Italia fa i conti con questa emergenza da vent'anni, e la Germania se ne sta accorgendo adesso.”

Sono stato testimone di fatti terribili e atroci, che ti lasciano dentro il vuoto e l'angoscia, ma accetto di parlarne - anche se fa male - perché spero che attraverso queste testimonianze si riesca a catturare la sensibilità di chi può fare e fino a oggi non ha fatto nulla,” dice Pietro Bartolo con la calma, il dolore e l'umanità che, guardando Fuocoammare, bucano lo schermo e arrivano dritte al cuore e allo stomaco. È incredibile che un personaggio del genere, intervistato da tv e giornali di tutto il mondo, sia praticamente sconosciuto al pubblico italiano, e che solo il film di Rosi gli abbia dato quella voce che i nostri media gli hanno finora negato.
“Lampedusa è il passaggio obbligato per queste persone. Persone, non numeri: per questo non ho mai contato quante ne ho viste in questi anni. E c'è chi dice siano state oltre 250mila,” dice il dottore. “È inaccettabile che queste persone muoiano in mare scappando da guerre, fame e torture, dopo migliaia di chilometri fatti a piedi, dopo che le donne, tutte le donne, vengono violentate,” prosegue. “Sono persone sane e forti, altrimenti sarebbero morte prima di imbarcarsi. Sono disperate, hanno messo in conto di morire perché hanno comunque la speranza di arrivare e sopravvivere, mentre a casa loro la certezza della morte. La maggior parte di loro non sa nuotare, e se cadono in acqua vanno giù a piombo: ne ho visti tanti, morire così, a pochi minuti di navigazione dalla costa. Di fronte a tutto questo,” domanda Bartolo, “la politica cosa sta facendo? Alza i muri e permette un traffico umano terrificante.”

Bartolo racconta poi di esperienze terrificanti, che fanno venire le lacrime agli occhi per la rabbia e per il dolore. Come quando, nel 2012, è sceso in una stiva buia per rendersi presto conto che stava camminando su dei cadaveri: “I cadaveri delle persone che cercavano di uscire perché gli mancava l'aria e stavano morendo soffocate dalle esalazioni del motore, ricacciate dentro la stiva a bastonate, chiuse dentro, che avevano cercato di divellere le travi di legno dello scafo a mani nude, con le unghie, lasciando scie di sangue ovunque.”
Non freme di indignazione, Bartolo, raccontando queste atrocità. Ma è quasi schiacciato dal dolore e dall'impotenza. Affronta tutto questo con un senso del dovere che è solo profonda umanità. Quell'umanità che, dice, è nel sangue dei lampedusani: “I lampedusani – non io, non il sindaco, i lampedusani tutti - sono un popolo da premio Nobel: per la loro capacità di aiutare e di accogliere. È nel loro DNA, sono pescatori: e i pescatori accolgono tutto quello che porta il mare.”

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