L'ultima settimana di settembre: Diego Abatantuono fra sorriso e malinconia nell'insolita opera prima di Gianni De Blasi
Nelle sale italiane con Medusa Film dal 12 settembre, L'ultima settimana di settembre è un film che ha il coraggio di raccontare una storia triste che poi acquista la leggerezza di una commedia. Il regista Gianni De Blasi e Diego Abatantuono l'hanno presentata oggi alla stampa.
Ci sono film che, senza essere ricattatori o peggio ancora retorici, hanno il coraggio di raccontare cose tristi senza ellissi furbette e con grande sincerità e profondità. A questo gruppo appartiene L'ultima settimana di settembre, primo lungometraggio di Gianni De Blasi che porta al cinema l'omonimo romanzo di Lorenzo Licalzi trasformato in un copione dallo stesso regista insieme ad Antonella G. Gaeta e Pippo Mezzapesa. La partenza della storia è piuttosto drammatica - con un anziano scrittore che in seguito alla morte della figlia e del genero si trova a trascorrere del tempo con un nipote con cui non ha praticamente nessun rapporto - ma nella seconda parte il racconto si fa più leggero, a tratti anche comico. Ovviamente per cavalcare questi due toni servivano attori esperti, e De Blasi li ha trovati in Diego Abatantuono e nel giovane Biagio Venditti, che ha riunito in un'auto d'epoca che da Lecce si dirige a Roma rigorosamente su strade secondarie. I due attori hanno subito trovato un'intesa e un canale di comunicazione, trasmettendo, da soli o in coppia, un turbinio di emozioni a chi ha avuto la possibilità di vedere il film in anteprima. Tra i fortunati c'eravamo anche noi, che abbiamo incontrato il regista e i protagonisti alla vigilia dell'uscita in sala.
Distribuito da Medusa Film, L'ultima settimana di settembre arriva in sala il 12 settembre e il regista ha voluto prima di tutto spiegarci il lavoro che ha fatto con i suoi compagni di sceneggiatura: "Le cose che più ci stuzzicavano erano due, a cominciare dal protagonista, e cioè un anziano scrittore che si vuole togliere la vita, il che ci sembrava un antefatto paradossale. Poi c'era il fatto che il vero personaggio principale del romanzo non era nonno Pietro ma il destino. E quando il destino ti toglie la più alta libertà che hai da essere umano, che è quella di suicidarti, vuol dire che devi fare i conti con ciò che ti sta dicendo. Perché la vita prima di ogni altra cosa insegna, e allora bisogna mettersi in ascolto. Abbiamo iniziato a scrivere con grande entusiasmo e subito ci siamo dovuti confrontare con la necessità di tenere in equilibrio un primo atto doloroso con dei movimenti di alleggerimento che poi avrebbero portato all’incontro fra Pietro e Mattia. Cosa fare allora? Un film in stile In viaggio con papà con situazioni rocambolesche? Oppure trovare una cifra in un percorso fatto di tappe non convenzionali? Abbiamo capito che dovevamo muoverci in punta di piedi, e perciò costruire delle lentissime e morbidissime manovre di avvicinamento fra nonno e nipote che mantenessero una certa sobrietà, e quindi una sigaretta accesa per cui un nonno non ti rimprovera, ascoltare una canzone, vivere delle esperienze d'amore: piccolissimi elementi che alla fine non fanno altro che mettere a confronto due persone fondamentalmente simili e costringerle una a fare dei passetti indietro e l’altra a fare dei passetti avanti. Facendo i film si cresce, e da questo ho imparato a restituire un cinema emozionante prima che desideroso solo di lanciare dei messaggi, perché adesso c'è tanto cinema art house che vuole lanciare un messaggio, e rischiamo di perdere il contatto con quei film che, dopo averli visti, ti fanno sentire più leggero".
Sull'aspetto comico e su quello drammatico de L'ultima settimana di settembre è intervenuto Diego Abatantuono, che ha detto: "Si tratta di un film che parte cupo, malinconico, e più è cupo e più diventa aperto a mano a mano che si avvicina al finale. Dal punto di vista della recitazione, è un film da cavalcare nel senso che 'già che siamo lì, balliamo, diciamo le cose, non sbrodoliamo’. Potevamo insistere con l'ironia, ma io ho aggiunto il minimo indispensabile, altrimenti non sarebbe stata in piedi la drammaticità della storia. Con Biagio ci siamo mossi nella direzione del realismo, cosa che non sarebbe stata possibile se non avessi trovato uno bravo come lui. Il talento è una cosa naturale, puoi andare a scuola quanto vuoi, ma non arrivi da nessuna parte se non c'è il talento, e lui, avendo un talento naturale, si è adattato completamente a me, tanto che sembravamo due componenti di una famiglia che andavano in giro. Ci sono stati dei momenti in cui ho provato ad essere come sono nella vita, poi ho pensato: 'Ho sbagliato, l'ho detta male, l'ho buttata un po’ via', ma poi mi so sono ricordato, per esempio, che quando mia mamma si arrabbiava, perdeva un po’ di voce, e l'ho fatto anch'io. Sono piccole cose che però danno verità a una storia".
Anche Gianni De Blasi ci tiene a dire la sua sul realismo, che fin dal principio è stato il suo più grande obiettivo, anche se lui si sente un regista visionario e barocco. Ne L'ultima settimana di settembre, la verità delle scene e dei personaggi va di pari passo con una giusta lentezza: "Il realismo di questo film è uno scambio simbiotico, perché se Diego e Biagio non fossero stati così bravi a riportare la messa in scena su una base di verità, non avrei potuto supportarli con una certa lunghezza delle inquadrature. Tutti qui abbiamo studiato storia del cinema - il libro di André Bazin "Cos'è il cinema", eccetera - e sappiamo che le inquadrature lunghe danno un'idea di realtà, fino ad arrivare al film in piano sequenza che è iper realistico perché il punto di visione coincide con quello di ripresa. Quando però non hai gli attori adatti, devi tagliare. C'è un’inquadratura in cui Pietro e Mattia sono in macchina e dialogano tra loro. Ebbene, sappiate che quel dialogo è tutto improvvisato da Diego e Biagio, e io ho solo continuato a girare. Il montatore poi mi ha detto: 'Questa ce la teniamo tutta così'. Questa 'lentezza' di solito mi è utile a sostare insieme ai personaggi senza che questi spostino necessariamente la storia. Detto in altre parole, fermarmi con loro mi permette di fare un approfondimento psicologico che non manda avanti l'azione ma aiuta il pubblico a empatizzare con i protagonisti".
Diego Abatantuono ha una carriera lunghissima alle spalle: ha collaborato con i più grandi registi italiani senza però disdegnare le opere prime. Ha fatto più commedie che film drammatici, e quando qualcuno gli ha chiesto a quale genere accordi la sua preferenza, l’attore ha risposto così: "La scelta per me è comunque sulla base della qualità della sceneggiatura. Se dovesse capitarmi di ricevere nello stesso giorno il copione di una buona commedia e il copione di un buon film drammatico, allora sarebbe veramente brutto dover rifiutare una delle due cose". Dopodiché aggiunge: "Ammetto però che è molto più difficile recitare in una commedia che fare un film serioso. Nel film serioso è molto importante quello che dici ed è molto importante essere credibili. Se tu sei capace di far credere alla gente che sta avvenendo sul serio quello che racconti, il film è riuscito. Nella commedia, invece, bisogna far ridere e bisogna far piangere, perché la commedia come la intendo io è una commedia che ha due risvolti".
Alla fine dell’incontro stampa, tuttavia, quando il clima è diventato più informale, Diego ci ripensa e confessa: "Scelgo la commedia, perché c’è anche il momento in cui lavoriamo, e la commedia ti porta a ridere durante le riprese e fuori dal set. Il film drammatico, invece, ti porta semplicemente a vivere la tua vita".