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Ero in guerra ma non lo sapevo: la storia vera di Pierluigi Torregiani raccontata dal film

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Fatti e riflessioni sul film Ero in guerra ma non lo sapevo, il film con Francesco Montanari e Laura Chiatti, ispirato all'omicidio del gioielliere Pierluigi Torregiani alla fine degli anni 70.

Ero in guerra ma non lo sapevo: la storia vera di Pierluigi Torregiani raccontata dal film

Uscito al cinema come film evento alla fine di gennaio 2022, Ero in guerra ma non lo sapevo racconta il noto caso di cronaca nera che si intrecciò con il terrorismo degli anni di piombo. Tratto dall'omonimo libro di Alberto Torregiani e Stefano Rabozzi (A.CAR Edizioni), il film si ambienta nella Milano di fine anni 70 in cui Pierluigi Torregiani è un gioielliere che ha costruito da zero la sua attività. Quando subisce un tentativo di rapina, un giovane criminale muore e, nonostante non sia stato lui a sparare, molti giornali lo accusano di essere un giustiziere della borghesia.

La tensione politica di quel tempo lo rende un obiettivo perfetto per i PAC, gruppo di terroristi guidato da Cesare Battisti, che individuano in lui un colpevole da punire. Torregiani e la sua famiglia ricevono minacce di morte: il pericolo è così concreto che gli viene assegnata una scorta. Le intimidazioni però sono sempre più invasive, lo condizionano nel lavoro e soprattutto nei rapporti con la famiglia. L'autore del libro Alberto Torregiani è uno dei tre figli adottati da Pierluigi.
Ero in guerra ma non lo sapevo è prodotto da Luca Barbareschi, diretto da Fabio Resinaro e da lui stesso scritto insieme a Mauro Caporiccio e Carlo Mazzotta. Nei ruoli principali troviamo gli attori Francesco Montanari e Laura Chiatti.

Ero in guerra ma non lo sapevo: i fatti realmente accaduti

Pierluigi Torregiani venne assassinato a Milano il 16 febbraio 1979. L’omicidio fu inizialmente attribuito alla malavita milanese e in seguito rivendicato dai PAC, Proletari Armati per il Comunismo, che si dichiaravano solidali con la criminalità che operava riappropriandosi dei beni materiali e giustiziando chi rispondeva alle rapine con le armi.
L’intreccio tra terrorismo e delinquenza trasformò imprenditori, negozianti, giudici in bersagli politici. Furono diversi gli omicidi perpetrati nei confronti di chi reagiva, rispondendo al fuoco. L’opinione pubblica si divise tra chi sosteneva le vittime e chi le accusava di farsi giustizia da sole.

Quella mattina quando suo padre morì, il 15enne Alberto Torregiani fu raggiunto da un proiettile che lo colpì alla colonna vertebrale. Da quel momento rimase paralizzato e costretto sulla sedia a rotelle. Dopo aver completato gli studi, Alberto si trasferì a Novara, senza mai smettere chiedersi perché che i responsabili della morte del padre non venissero consegnati alla giustizia.

Cesare Battisti, membro del gruppo di terroristi nostri come i P.A.C. e mandante dell'attentato nei confronti di Pierluigi Torregiani, fu condannato all'ergastolo per quattro omicidi, due commessi in prima persona, due in concorso con altri. Dopo oltre trent’anni di latitanza, il 12 gennaio 2019, Battisti venne stato arrestato in Bolivia e consegnato alle autorità italiane. Il 25 marzo 2019 dell stesso anno ammise per la prima volta le proprie responsabilità per i crimini che gli sono stati imputati. Battisti rilasciò inoltre questa dichiarazione: "Non sono mai stato vittima di ingiustizie e ho preso in giro tutti quelli che mi hanno aiutato. Ad alcuni di loro non c’è neanche stato bisogno di mentire".

Ero in guerra ma non lo sapevo: le riflessioni degli sceneggiatori

Gii autori del soggetto Mauro Caporiccio e Carlo Mazzotta hanno adattato il libro di Alberto Torregiani insieme al regista Fabio Resinaro. Gli autori riconoscono come le vicende accadute facciano di Pierluigi Torregiani una vittima, ma non soltanto a questa definizione che si sono fermati adattando la sua storia per lo schermo. È l'uomo con hanno voluto raccontare, in tutti gli aspetti che caratterizzano Torregiani. "Come sempre accade approcciando un adattamento, c’è un livello più profondo che si è chiamati a rivelare per renderlo qualcosa di più della mera trasposizione di un romanzo o la drammatizzazione di fatti realmente accaduti" raccontano i tre nelle note rilasciate per la promozione di Ero in guerra ma non lo sapevo. "La scoperta di un riflesso interno. Di qualcosa che, nel rispetto dell’originale, ha la capacità di generare racconto, di sorprendere l’autore stesso.  O, come accaduto in questo caso, addirittura di mobilitarlo. Di esprimere un aspetto della vita immediatamente riconoscibile e soprattutto urgente da condividere".

"Per questo il nostro racconto di quei venticinque giorni a cavallo dei primi due mesi del 1979, è anche la caduta di un uomo che si sente invincibile. Quasi che questa hybris, abituato com’è a padroneggiare con successo qualunque avversità, sia la sua vera condanna.  Un tratto - quello dell’essere esposti, minacciati, indifesi - che negli ultimi due anni è emerso come un dato di realtà che ha colpito tutti, senza distinzioni.  Smontando l’errata percezione di poter essere in grado, sempre e comunque, di poter fronteggiare e superare tutto. E comunque, a che prezzo? Allora come oggi, l’isolamento, addirittura la reclusione per Torregiani, sua moglie ed i suoi tre figli adottivi, furono l’inevitabile conseguenza di arginare il pericolo che incombe. Qualcosa che paradossalmente sottrae vita nel tentativo di proteggerla. Ed è proprio intorno al tema della sottrazione, del furto, del riappropriarsi di qualcosa che ci è stato tolto - sia essa proprietà, vita, libertà - che tutto si muove".

"Il film apre la porta di casa di una famiglia borghese negli anni più bui della nostra Repubblica, la tragica storia della sua progressiva distruzione per mano dei terroristi. Tuttavia, gli assassini, con le loro minacce e P38, nel film non si vedono, non agiscono. Restano anonimi, senza una vera identità. Fantasmi armati che uccidono e basta - e senza alcuna pietà - Pierluigi Torregiani: il padre, il gioielliere rampante che si è fatto da sé, sfrenatamente ambizioso e narcisista, dipinto dai giornali della sua epoca come un giustiziere armato. Soprattutto una persona per bene, che tenterà in tutti i modi di non farsi intimidire nella battaglia disumana, insensata, lacerante, che è stato condannato a combattere. E che ineludibilmente, da perseguitato, dovrà confrontarsi col suo persecutore interno. In un percorso di consapevolezza che lo rende altro dalla mera vittima di una morte annunciata".

Chi sono i PAC: origine e formazione del gruppo terroristico

Il gruppo eversivo di estrema sinistra Proletari armati per il comunismo (Pac) è stato attivo in Lombardia, Veneto e Friuli tra la metà del 1976 e la fine del 1979.
Il gruppo affonda le sue radici originarie in quell’area di militanti che gravita intorno alla rivista Rosso, divenuta nel maggio 1974 organo ufficiale dell’Autonomia Organizzata. Nello stesso anno quell’area comincia ad affiancare il “lavoro politico di massa” con pratiche illegali, dando vita ai primi attentati riconducibili all’ambiente dell’Autonomia, tra cui l’attentato incendiario al magazzino Face Standard, alle porte di Milano, al quale partecipano due futuri membri dei Pac: Arrigo Cavallina e Silvana Marelli.
Nei tre anni successivi la rete di «Rosso» si allarga in più collettivi territoriali e manifesta un crescente interesse verso il tema del cosiddetto “carcerario”, tema particolarmente caro ad Arrigo Cavallina. Quest’ultimo - essendo un insegnante, quindi un intellettuale - ne approfondisce gli aspetti e comincia, tra l’altro, a elaborare una sua teoria evoluzionista secondo cui i rapinatori comuni non sono altro che rivoluzionari in nuce.
Si arriva così alla primavera 1977, con le manifestazioni-guerriglia in varie città. A Milano, in particolare, uno dei protagonisti degli scontri del 14 maggio in via De Amicis è Giuseppe Memeo (è lui il giovane raffigurato in una celebre foto di quell’evento, a gambe divaricate, braccia distese e pistola in pugno), che di lì a poco entrerà a far parte dei Pac.
Nel frattempo alcuni amici di Cavallina - Luigi Bergamin, Claudio Lavazza e Diego Giacomini – fondano un organo di stampa dedicato proprio al tema del “carcerario”, intitolato «Senza Galere». Il periodico, cui collaborano anche Sebastiano Masala e Pietro Mutti, diventa ben presto il punto di riferimento ideologico dei nascenti Pac, i quali, nel corso del 1977 e nei primissimi mesi del 1978, non hanno ancora iniziato a spargere del sangue e si dedicano ancora esclusivamente alle rapine di autofinanziamento.
In questa fase iniziale i Pac sono ancora un gruppo esiguo, composto sostanzialmente dalle stesse persone che compongono la redazione di «Senza Galere». Ben presto, però (febbraio 1978), Arrigo Cavallina diventa il direttore del periodico, che corrisponde pienamente ai suoi interessi politico-culturali, e si trasforma così nell’ideologo dei Pac. Fedele alla sua teoria evoluzionista, sarà lui, nei primi mesi del 1978, a traghettare il rapinatore Cesare Battisti dalla malavita comune alla lotta armata, trasformandolo in uno dei principali esponenti dei Proletari armati per il comunismo. (testo di Giuliano Turone, Ministero per i beni e le attività culturali Direzione generale per gli archivi).

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