Tutti tranne te: la recensione della rom-com con Sydney Sweeney e Glen Powell
Un film dalla generica e evanescente gradevolezza, che si aggrappa ai fisici e alla bellezza dei due protagonisti, e che ha la spiacevole tendenza di esaurirsi in questa superficie. La recensione del film di Federico Gironi.
A pensarci bene, tutto torna.
Perché nel mondo del cinema contemporaneo, dove il film non è più tale ma è, prima di tutto, “contenuto”, dove, se l’immagine tende a essere appiattita e banalizzata, la storia non può che subire un trattamento ancora più radicale, è la scrittura quella che viene sempre più frequentemente sacrificata. Schiacciata e costretta tra esigenze di comprensibilità più che universale, dove tutto deve essere spiegato per filo e per segno allo spettatore, ritenuto evidentemente (e forse non a torto) incapace di intendere, se non di volere, e quelle di una consapevolezza politica progressista e woke che impone scelte fatte con un bilancino non tarato sulla efficacia del racconto, e grande attenzione ai linguaggi e alle parole.
Perché dico questo? Perché sappiamo bene tutti che non esiste genere in cui la scrittura è importante come la commedia, e ancora più importante questa diventa se la commedia è romantica. Non serve scomodare i capolavori del passato - da Accadde una notte a Vacanze romane, da Scrivimi fermo posta a L’appartamento, o La signora del venerdì - per capirlo, nemmeno i film di quella che è stata una recente golden age del genere, da Harry ti presento Sally a Notting Hill. È una cosa evidente.
Come è evidente che, nella sua generica e evanescente gradevolezza, Tutti tranne te è un film che, se scritto meglio, poteva regalare maggiori soddisfazioni di quanto non faccia.
Curioso che, fin dall’inizio, Tutti tranne te denunci apertamente il debito suo - e della rom-com in generale - nei confronti del modello shakespeariano, in particolare quello di “Molto rumore per nulla”, senza dimenticare la Jane Austen di “Orgoglio e pregiudizio”.
Ma forse l’evidenza sta lì proprio a dimostrare che sì, magari si sa citare, ma il resto, beh: è un altro paio di maniche.
La storia è fin troppo semplice. Lui e lei s’incontrano, si piacciono, trascorrono una romantica serata assieme ma, al mattino, complici paure, insicurezze e orgogli, le cose si guastano, e l’amore si traveste da odio. Si incontrano di nuovo, per caso, quando la sorella di lei e la migliore amica di lui si fidanzano, e quando le due decidono di sposarsi, in Australia, le cose si complicano: i loro battibecchi rischiano di rovinare la festa, e in più spuntano degli ex. Ecco che allora lui e lei faranno finta di stare assieme e di non odiarsi, mentre fanno finta di non amarsi, per presunti scopi personali.
Patinato, cartolinesco e vacanziero alla stregua di un Mamma Mia! (ma l'Australia non è la Grecia), Tutti tranne te si affida anima e (soprattutto) corpo ai suoi due protagonisti e ai loro fisici.
Lui è il Glen Powell che è stato l’Hangman di Top Gun: Maverick, il personaggio erede dell’Iceman di Val Kilmer, nonché strepitoso protagonista dell’Hit Man di Richard Linklater che ha fatto impazzire tutti a Venezia. Qui ne ritroviamo tutta la muscolatura e la prestanza del primo film, un po’ meno la verve anche autoironica del secondo.
Lei è Sydney Sweeney, bionda e formosa stellina di serie come Euphoria e The White Lotus, prossimamente anche in Madame Web, idolo degli adolescenti anche per la sua esibita carica erotica, la grande attività sui social, gli abiti indossati (e per le interviste in cui parla del suo seno).
Il personaggio più bello di Tutti tranne te, il padre australiano dalla canna sempre accesa di una delle due spose (interpretato dall’indimenticabile Bryan Brown, il Doug Coughlin che faceva da mentore a Tom Cruise in Cocktail) a un certo punto del film, un punto in cui col figlio inscenano un dialogo che dovrebbe spingere il personaggio di Powell verso quello di Sweeney, parla di lei come della “ragazza dalle tette grandi e lo sguardo triste”.
Nonostante il figlio lo rimproveri per il linguaggio, non è solo una definizione tutto sommato azzeccata, ma anche una battuta che dice molte cose di un film che, se è nel complesso carente in commedia e romanticismo, cerca di fare spesso e volentieri due cose.
Da un lato, in un unico movimento, ironia sulle ossessioni linguistiche e comportamentali delle nuove generazioni, e al tempo stesso un gesto di benevola condanna verso una generazione più anziana che proprio non ci arriva, a capire certe cose; dall’altro, innestare una carica di sensualità e sessualità poco più alta del normale sul corpo della rom-com mainstream contemporanea, che tende a eccessi pudici di stampo quasi ottocentesco.
E però, a dispetto di tante intenzioni anche buone, Tutti tranne te finisce troppo spesso per esaurirsi nella sua superficie, anche quando questa superficie riguarda l’esposizione dei muscoli e delle forme dei suoi protagonisti, i centimetri quadrati di pelle nuda, l’occasionale e intenso rapporto sessuale.
Fuori dai pettorali e dagli addominali scolpiti di Powell, e dagli occhi azzurrissimi e dal seno florido di Sweeney (e da tre splendide Land Rover vintage), c’è poco altro. Ci sono goffi tentativi di comicità quasi demenziale, ostentati richiami letterari, un’idea di romanticismo che si concede di essere melensa, riuscendoci benissimo, in virtù della dichiarata voglia di prendere in giro i cliché del romanticismo melenso.
Inutile parlare di regia, qui nelle mani del Will Gluck di Easy Girl: perché lì c’era una sceneggiatura riuscita e interessante (oltre che Emma Stone); qui invece - e l’abbiamo detto subito - la scrittura latita. E non sarà certo un Gluck qualsiasi a cambiare le sorti del film.
Un film, questo, che non si fa odiare, ma che è anche difficile amare.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival