Monica, la recensione del film di Andrea Pallaoro in concorso al Festival di Venezia 2022

03 settembre 2022
4.5 di 5
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Una donna lascia la California per tornare al capezzale della madre malata che non vede da vent'anni. Una splendida performance di Trace Lysette in Monica, dramma indie di Andrea Pallaoro in concorso a Venezia. La recensione di Mauro Donzelli.

Monica, la recensione del film di Andrea Pallaoro in concorso al Festival di Venezia 2022

Una spider sotto il sole di Los Angeles, guidata da una donna che parla al telefono. Inizia così il secondo capitolo di una trilogia dedicata a diversi personaggi femminili in diversi luoghi da Andrea Pallaoro, quarantenne da più di una ventina negli Stati Uniti, dove ha studiato cinema e ambientato Monica. Il racconto di una donna che torna per la prima volta a casa, quella in cui è nata, cresciuta e da cui è fuggita in piena adolescenza. Ritrova la madre dopo una lunga assenza, oltre al resto della sua famiglia. Sempre che la madre la riconosca, visto che è malata e alterna momenti di lucidità con altri di smarrimento sempre più frequenti, fra poco maggioritari. 

Il tempo è poco, dopo averne trascorso tanto lontani. Monica è una transgender, e questo deve avere inciso sull’allontanamento innaturale fra una madre e una figlia. Una storia in bilico fra la progressista California e il conservatore Midwest rurale, lungo la faglia sempre agitata che divide in una guerra civile fredda due Americhe: quella in prima pagina che vive in un costante futuro e quella più numerosa e ribollente che si rivolge ai populismi per non accettare l’irruzione di nuove libertà e la fine di vecchi privilegi superati dalla storia.

Pallaoro lo fa senza giudizio, affrontando il tema dell’abbandono come evaporato rancore, una rabbia trasformata nel rammarico per la paura di un’ulteriore perdita imminente, definitiva seppure inevitabile nel ciclo naturale di vita e di morte. Con poche parole, delineando semplicemente un lento percorso di sutura di ferite dolorose, che prima di tutto prevede un percorso di autoconsapevolezza personale di Monica, la presa di coraggio di una donna adulta schiacciata dalle insicurezze, sopite dal riscatto di anni di vita indipendente. È un film on the road in più di un senso, per buona parte in moto forzato, in macchina e poi, quando anche quella la abbandona e sembra complottare con il destino e far rinunciare l’eroina fragile a rialzarsi, trova la forza per tornare indietro e proseguirlo, questo viaggio, fino in fondo. Diventa a quel punto il ritorno a casa in cerca della scoperta di una madre divenuta estranea da troppo tempo. Si riconoscono attraverso piccoli gesti di ritrovata intimità, corpi che si sfiorano e poi imparano a riconnettersi, ad abbracciarsi

Un percorso di grande pudore, un puzzle che si costruisce pezzo per pezzo, con la giusta calma e un’emozione crescente, senza interpretazioni imposte, lasciando libertà di riempire i silenzi e i dubbi narrativi con la propria esperienza. In questo aiuta la straordinaria presenza di Trace Lysette, un corpo e soprattutto un’anima candida che commuove. E anche la spia dell’allarme rosso provata per il formato, un 4/3 spesso abusato come imposizione puramente formale, rientra presto, dimostrandosi sorprendentemente funzionale a ricomporre questi due corpi femminili, di età diversa, all’interno di un’inquadratura che più che soffocarli permette loro di ritrovare intimità, esplorarsi. 



  • critico e giornalista cinematografico
  • intervistatore seriale non pentito
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