It Follows: la recensione dell'horror di David Robert Mitchell
Uno degli horror più calati dentro il suo tempo che si siano visti da diverso tempo a questa parte: tanto da essere quasi un film generazionale.
David Robert Mitchell è del 1974, come me. I protagonisti del suo film hanno una ventina d’anni - anno più, anno meno. E It Follows è uno degli horror più calati dentro il suo tempo che si siano visti da diverso tempo a questa parte.
Tanto da essere quasi un film generazionale, con quel friccicorio anni Ottanta che lo pervade, la bellissima colonna sonora di Disasterpeace imbottita di sintetizzatori, le bmx e il feeling carpenteriano che stanno lì a confermarlo, invece che smentirlo.
Ambientato all’inizio di un autunno che sfocerà inevitabilmente in un inverno - non nella più canonica estate - e nella città simbolo della crisi di questi anni - una Detroit tutta suburbia e rovine urbane -, quello di Mitchell è un horror sulle ansie, le paranoie e le incertezze che segnano i nostri giorni e fanno del futuro dei più giovani un campo minato: altro che AIDS e malattie sessualmente trasmissibili.
Basterebbe l’incipit del film, per capirlo: una ragazza esce di casa correndo, scappa da qualcosa che non vediamo, che nessuno tranne lei può vedere; suo padre la segue, la ragazza lo rassicura ma non ci crede nemmeno lei; l’adulto non capisce; la ragazza fugge, è sola, è notte; sa di non avere scampo, fa solo in tempo a chiamare a casa: ti voglio bene, dice al padre, scusami se ogni tanto non lo dimostro.
Sono solo i turbamenti dell’adolescenza? Le irrequietudini che accompagnano l’ingresso all’età adulta? Sono quelle paure che non si riescono a spiegare, quelle insicurezze che ci rendono insopportabili anche quando non vorremmo? Sì, certo lo sono. Sono quelle, e sono quelle ansie lasciateci in eredità da un mondo che non offre più alcun punto di riferimento solido, tantomeno un qualche appiglio identitario.
Se non lo sanno nemmeno loro, chi sono davvero e chi saranno, i protagonisti di It Follows, che vanno al cinema a vedere Sciarada e nel mentre giocano a chi-vorresti-essere (e lui vorrebbe essere un bambino, guarda un po’), perché dovremmo essere così sicuri noi, e dare un’etichietta meno generica dell’”it” del titolo alla cosa che perseguita Jay, e i suoi amici? Quella cosa senza volto - anzi, dai mille volti sempre diversi - che la segue con la lentezza che si può permettere qualcosa di inesorabile e di ineluttabile, come la morte, e che si passa col sesso?
Già, il sesso. Facile se si vuole esser pigri parlare allora di MST, ma qui le cose sono più ampie, sono più complesse, e il sesso è solo un pretesto, che però fa perfettamente scopa col desiderio impellente di trovare una parentesi, una via di fuga dalle mille cose senza nome e senza volto che ci angosciano e ci perseguitano. Il sesso come evasione, più che come contagio: e se è anche quello, basti ricordare che l’orgasmo è una piccola morte. Eros e thanatos.
David Robert Mitchell è uno bravo, e lo aveva già dimostrato abbondantemente con The Myth of the American Sleepover: recuperatelo al più presto. Aveva già dimostrato di saper raccontare (bene) la giovinezza, le incertezze, l’intimità, la sessualità. Qui fa vedere pure di aver studiato, citando il Carpenter più paranoide de La cosa e del Signore del Male, senza mai compromettere uno stile personale caratterizzato da una densità liquida, da una morbidezza acquatica e ipnotica ripresa nelle piscine, nei getti d’acqua e nelle acque lacustri che costellano il film e ne segnano i momenti principali, dall’inizio alla fine. E seducendoti con un eleganza fatta di dettagli piccoli e grandi, creando una tensione (capace di sfociare in spaventi a sorpresa mai da quattro soldi, altro che James Wan) che è quella dello stato di costante smarrimento e di perturbazione esistenziale dei suoi protagonisti.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival