Mamma mia: 3 film che raccontano l’altra faccia della maternità
La maternità è ancora uno degli ultimi tabù della rappresentazione cinematografica. Per decenni è stata dipinta come un’esperienza totalizzante, gioiosa e istintiva. Ma cosa accade quando quella narrazione perde l’incanto e rivela ciò che spesso non si osa dire?

- Pieces of a Woman di Kornél Mundruczó: la perdita
- Die My Love di Lynne Ramsay: il rumore
- Tully di Jason Reitman: la stanchezza
L’amore non basta, il corpo si ribella e la mente crolla sotto il peso di aspettative insostenibili. Nascono allora film che raccontano la maternità senza filtri, spogliata dell’idealizzazione. Solo così emergono le ombre, i conflitti e una verità spesso taciuta.
Ci sono storie che scelgono di non raccontare la nascita di un figlio, ma il crollo di un’identità, il peso del corpo, la solitudine del dopo. È lì che ci addentriamo oggi, attraverso tre film – Pieces of a Woman, Die My Love e Tully – accomunati da uno sguardo scomodo e, proprio per questo, necessario.
Pieces of a Woman di Kornél Mundruczó: la perdita
Una donna partorisce in casa. C’è il compagno, c’è l’ostetrica, ci sono le candele, l’acqua calda, la musica. Ma qualcosa va storto e in pochi minuti tutto crolla. Pieces of a Woman comincia con un lungo, straziante piano sequenza che ci trascina nel cuore del trauma. Martha (Vanessa Kirby, in una delle sue interpretazioni più viscerali) perde sua figlia appena nata e si ritrova a fare i conti con un lutto che non ha conforto né spazio sociale.
Il film non parla tanto del dolore in sé, quanto dell’isolamento che quel dolore genera. Il corpo di Martha resta quello di una madre, ma il suo ruolo viene negato, la sua identità scardinata. Mentre la famiglia pretende di gestire il lutto attraverso la vendetta legale, Martha rivendica un percorso personale e silenzioso.
In Pieces of a Woman la maternità si intreccia con la perdita e la memoria, diventando il diritto di elaborare un dolore autentico, lontano da ogni spettacolarizzazione.
È un film che mette in crisi chiunque lo guardi e che vi rimarrà appiccicato addosso.
Die My Love di Lynne Ramsay: il rumore
Il film racconta la maternità da un lato oscuro e spesso nascosto: la depressione post-partum. Jennifer Lawrence offre una performance intensa, facendoci sentire il peso schiacciante di un dolore che non si vede ma si vive dentro. La regia amplifica i suoni quotidiani (il ronzio delle mosche, il pianto del neonato, l’abbaiare dei cani) trasformandoli in un’angoscia palpabile che disturba anche lo spettatore. Robert Pattinson interpreta un marito presente ma impotente, che lotta per sostenere la moglie e mantenere viva una famiglia appena nata.
Lynne Ramsay racconta il lato più buio del dopo parto, dando voce alla fragilità e al disorientamento di chi ci passa attraverso, coinvolgendo chiunque, anche chi non ha mai avuto figli.
Die My Love porta alla luce ciò che solitamente resta nell’ombra, mostrando come la salute mentale e il ruolo materno possano entrare in conflitto profondo.
Tully di Jason Reitman: la stanchezza
Charlize Theron è Marlo, madre di tre figli. Esausta e invisibile. Dopo la nascita del terzo bambino, inizia a mostrare segni evidenti di esaurimento. La casa è un caos, il marito è assente, il corpo è stanco e la mente sprofonda in uno stato di apatia e frustrazione. Poi arriva Tully, una tata notturna, luminosa e giovane, che si prende cura del neonato e, in apparenza, salva Marlo da se stessa.
Tully è molto più di un film sulla genitorialità: è un racconto sul tempo, sulla perdita di sé, sulla nostalgia di chi si era prima di diventare “solo” madri. Riesce a trattare il tema con leggerezza e profondità insieme, senza mai cadere nella banalità. Specialmente nel finale.
L’essere madre, qui, è un accumulo di gesti ripetuti, fatica e assenza di riconoscimento. Non è tragedia, come nei film precedenti, ma logoramento quotidiano, invisibile e pervasivo. Non c’è guarigione immediata: solo la fatica di riconoscersi, anche nelle fratture.
In tempi in cui la maternità viene ancora idealizzata, alcune storie ci ricordano che diventare madre è anche, e soprattutto, un’esperienza soggettiva che sfugge a ogni manuale.
Non c’è un solo modo per viverla e non c’è un solo volto che possa rappresentarla.
In questo senso il cinema, quando è onesto, può restituire complessità a ciò che la società tende a semplificare. E questi tre film, ognuno a modo suo, lo fanno con una potenza rara.