Robin Hood: recensione del film d'avventura con Taron Egerton e Jamie Foxx
Una rivisitazione della leggenda del noto eroe inglese in cui l'azione conta più dei personaggi.
Si sentiva il bisogno di un altro film dedicato al leggendario e accattivante Robin Hood, eroe popolare del Regno Unito nel quale, nel corso degli anni, si sono calati Douglas Fairbanks, Errol Flynn, Sean Connery, Kevin Costner, Russell Crowe, Margareh Rutheford e perfino - anzi soprattutto - un maschio di volpe cartone animato proveniente da casa Dinsey? Forse no, ma non è questa la domanda con cui partire per una corretta valutazione dell'indiavolato action-movie prodotto niente di meno che dalla Appian Way di Leonardo DiCaprio. In fondo, quando un personaggio che ha dalla sua fascino, simpatia e generosità, tornare a parlarne è cosa buona e giusta, tanto più se deve rappresentare un outsider virtuoso da contrapporre all'umana sete di ricchezza e alle ingiustizie sociali. Come Amleto e Macbeth, insomma, il ladro innamorato di Lady Marian può mutare a seconda del contesto non tanto in cui vive, ma nel quale sono immersi coloro che fruiscono il racconto che lo vede protagonista.
L'universo che il nuovissimo Robin Hood descrive è un mondo brutto, sporco e cattivo dominato dall'avidità e dall'intolleranza, dove la pelle migliore è quella bianca e ogni arabo ha dentro di sé un terrorista, e dove il potere temporale regna sovrano, andando a braccetto con politicanti più o meno corrotti. E' logico e sacrosanto, quindi, in tempi tanto bui, cambiare la nazionalità di Little John, facendone un guerriero saraceno che aiuta un Lord Loxley affetto da disturbo post traumatico da stress a dar battaglia allo Sceriffo di Nottingham. Va benissimo anche insistere sulle differenze di vita e di reddito fra i governanti e la gente del popolo, costretta a marcire tra fradice miniere e casupole fuligginose. E tuttavia Otto Bathurst e i suoi sceneggiatori giocano a carte troppo scoperte, citando The Hurt Locker e Black Hawk Down nelle scene ambientate in Siria e privando il moro che allena il giovane bianco al tiro con l'arco di qualsiasi connotazione negativa.
Accade così che il povero aiutante numero uno del protagonista, nonostante l'interpretazione dell’eccelso Jamie Foxx, rimanga una figura bidimensionale, un santo briccone come ce ne sono tanti. E in fondo nemmeno gli altri personaggi brillano per spessore, ad eccezione forse di Robin, interessante perché, proprio come il Bruce Wayne della trilogia di Batman di Nolan, è un eroe riluttante, un uomo che non può più farsi gli affari suoi perché la città dov'è nato ha bisogno di lui. E la Nottingham in cui il ragazzo dal cappuccio scuro agisce somiglia in qualche modo a Gotham City, anche se le opere del regista di Dunkirk non sono l'unico calderone in cui Robin Hood va a pescare.
C’è di tutto un po’, infatti, nel film, comprese le bighe di Ben-Hur, una location de Il Trono di Spade e perfino qualcosa del Riccardo III di Richard Loncraine, che fa capolino nel personaggio dello Sceriffo di Nottingham che Ben Mendelsohn rende un leader folle. E il fatto che il suo cappotto di pelle ricordi (proprio come l'abbigliamento di Ian McKellen nella trasposizione della tragedia shakespeariana) le divise delle SS induce a pensare alle spinte neofasciste e neonaziste che attraversano il nostro presente.
Perché non è tutto finto, né tantomeno fumettistico, in Robin Hood, che nella scenografia denota accuratezza. Però il film non è nemmeno epico né realmente archetipico, e neanche umoristico, è non è roba da grandi né da bambini. E’ roba da ragazzini malati di videogiochi che non reggono i dialoghi corposi né un montaggio che non sia da cardiopalma. Ossessionato dal desiderio di avvicinare Robin Hood ai figli degli anni Duemila, il regista passa da una sequenza scatenata all'altra. I dardi schioccano, le corse si sprecano, i cavalli corrono all’impazzata e le carrozze non si trasformano in zucche ma in macchine rombanti. E se la profondità di campo è assicurata, manca la profondità dei personaggi, perché Bathurst sembra non avere tempo di occuparsi di loro. Non c’è spazio per viaggi interiori e nemmeno per quella succosa violenza di calci e pugni che fa rumore e sa di verità. Certo, il dispendio di energie e competenze tecniche è evidente, e Taron Egerton è bravissimo, ma a fine visione poco resta di Robin e della sua maturazione. E' un peccato, e anche un dispiacere per chi, come noi, crede che l'essenza di un film siano i personaggi.
- Giornalista specializzata in interviste
- Appassionata di cinema italiano e commedie sentimentali