Lincoln - la recensione del film di Steven Spielberg
Più che un film biografico su uno dei Presidenti più amati, un'invocazione al recupero della centralità della politica.
Sedicesimo presidente degli Stati Uniti d’America, Abramo Lincoln ne è a tutt’oggi uno dei più amati e ricordati, per via della sua indubbia rilevanza storica.
Se gli è stato dedicato il celebre Memorial a Washington, se il suo volto è scolpito sul Monte Rushmore e stampato sulle banconote da 5 dollari e sulle monete da 1 centesimo, è perché con atti come il discorso di Gettysburg e il Tredicesimo emendamento alla Costituzione Abramo Lincoln ha segnato la storia degli Stati Uniti e di tutto il mondo, abolendo la barbarie della schiavitù e rafforzando la centralità del governo federale statunitense.
Di fronte ad una figura storica di questa caratura, e tanto amata in patria anche dal punto di vista emotivo, il rischio che un film biografico a lui dedicato potesse diventare fastidiosamente agiografico era alto. Ma Steven Spielberg non è un regista qualunque: anche quando veste i panni del rètore, lo fa nel senso nobile del termine e, soprattutto, non è mai un agiografo.
Che allora il suo film parta con una (unica) scena di guerra non è semplicemente autocitazione che guarda a Salvate il soldato Ryan: perché nella fatica e nel dolore di quei corpi aggrovigliati nel fango c’è già la rappresentazione metaforica di un film che racconta di una battaglia, non fisica ma politica, nel quale chi la combatte deve necessariamente sporcarsi le mani, a costo di profondi sacrifici e sofferenze.
Lincoln, lo si guardi con attenzione, non è allora un film biografico sul personaggio che gli dà il titolo, ma sulla politica, di ieri e di oggi. Un film che della politica riafferma ruolo e centralità anche e forse soprattutto attraverso i compromessi che richiede, che ridimensiona alcune ingenuità legate alla democrazia rappresentativa (i discorsi del radicale Thaddeus Stevens di Tommy Lee Jones lo esplicitano chiaramente) e che, in un’era in cui il termine “politico” sembra essere diventato un insulto, restituisce ruolo e dignità a quella che può e forse deve essere una professione.
Film tutto di parola e ragionamento, motori unici di ogni possibile azione, intellettuale e fisica, Lincoln sembra una versione di “The West Wing” ambientata del 1865, un racconto intimo e retroscenistico sui meccanismi del potere, sui suoi machiavellismi, perfino sulla sua declinazione attraverso l’attività oratoria, pubblica o parlamentare che sia. Sulle attività retoriche della politica.
Ecco che allora si comprendono e si giustificano anche le retoriche di Spielberg, che piega il suo stile al contenuto, e che rilancia la democrazia e le sue straordinarie potenzialità proprio nel mostrarle indissolubilmente legate al primato dell’attività politica. Un’attività politica che è, anche, rinuncia, compromesso e perfino sotterfugio.
Spielberg racconta ed endorsa quella che allora e ieri era una realpolitik, capace di toccare tanto il pubblico quanto il privato, e che (la condanna è implicita) in un passato più recente è degenerata spesso in un’attività priva di etica e morale: cinica, opportunista e corrotta.
Che poi la storia di Lincoln e dei suoi risultati venga raccontata negli anni e nei mesi in cui è proprio un Presidente afroamericano ad occupare la Casa Bianca e in cui i dissidi tra Presidenza e Congresso sono all’ordine del giorno, è forse un caso o forse ennesima dimostrazione della capacità del cinema di cogliere lo zeitgeist in cui è nato.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival