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Un giorno al Cinema Troisi nel segno di David Lynch

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La sala romana gestita dalla Fondazione Piccolo America ha dedicato una retrospettiva al genio di David Lynch. Federico Gironi è stato loro ospite e ha rivisto in una sola giornata Strade perdute, Eraserhead e Mulholland Drive. Questo è il diario impressionista di quello che ha visto sullo schermo e fuori.

Un giorno al Cinema Troisi nel segno di David Lynch

Diane, sono le 10:34 del 30 gennaio 2025.
È un giovedì, a Roma l’aria è fresca e frizzante ma non fredda, e io sono appena arrivato davanti al Cinema Troisi dove sto per fare una maratona di film di David Lynch.
Alle 11 vedrò Strade perdute, alle 16 Eraserhead e alle 18:30 Mulholland Drive: un programma niente male, no? Davanti all’ingresso del cinema si era parcheggiato un furgone arancione, era un corriere che scaricava del materiale, e quando è ripartito, proprio prima che io attraversassi la strada, mi sono accorto che sulle scale d’ingresso al cinema, e davanti al botteghino, c’è già un discreto capannello di persone. Sono molto curioso di vedere chi mi troverò di fronte.

Diane, sono le 10:58 del 30 gennaio 2025.
Sono sempre al Cinema Troisi, sta per iniziare la proiezione di Strade perdute: non lo vedo da quando ero uno studente all’università. Sono già in sala, che è sorprendentemente piena: direi a occhio che è quasi piena per metà, e considerato il giorno feriale e l’orario mi pare qualcosa di davvero notevole. Ci sono molti ragazzi, ma anche alcune signore dai capelli bianchi, che potrebbero essere le loro zie, o le loro nonne, e che evidentemente condividono con loro la passione per il cinema di Lynch. Prima di entrare ho preso un caffè; ciambelle non ce n’erano, ho ripiegato su un’ottima girella alla cannella. Lì all’ingresso, dove c’è il bar e l’entrata della sala, in diffusione c’era musica di Bob Dylan: forse perché in mezzo ai film di Lynch hanno programmato uno spettacolo di A Complete Unknown. Mentre bevevo il mio caffè ho osservato i ragazzi in attesa di entrare al cinema: mi pareva di cogliere una strana elettricità in molti di loro.

Diane, solo nel 13:42 del 30 gennaio 2025.
La visione di Strade perdute mi ha scombussolato tutto. Non mi ricordavo il film fosse così potente, oscuro, spiazzante. Ammetto che una delle prime cose che ho pensato è stata “ma che fine ha fatto BIll Pullman”, ma poi sono finito dentro a uno degli stagni neri che Lynch ha messo sullo schermo e non ho pensato più niente che non fosse quello che stavo vedendo coi miei occhi, ai quali tendevo a non credere. Il film è entrato nella mia testa come il tavolo di cristallo in quella di Andy, se capisci cosa intendo. Una volta uscito ho provato a fare un po’ di domande a alcuni dei ragazzi che erano in sala con me, ma la maggior parte di loro era troppo scosso, e anche un po’ diffidente nei miei confronti: non posso dare loro torto. Un ragazzo coi baffi e il piercing al naso mi ha raccontato fumando di essere uno studente di cinema, come lo ero io, e che era la prima volta che vedeva Strade perdute sul grande schermo. Gli ridevano gli occhi, mentre lo diceva, ma il suo tono era pensoso: ha detto di voler lasciare il film depositarsi, e che per oggi non vedrà più niente. Una ragazza bionda e molto bassa, che era assieme al fidanzato molto molto alto, dice che invece tornerà più tardi a vedere Mulholland Drive. Per lei era la prima volta con Strade perdute, mentre Mulholland Drive lo conosce già, e proprio per quello tornerà a vederlo. Il fidanzato alto no, non ci sarà: deve tornare a Bologna, e proseguirà le visioni lynchiane lì, al cinema Modernissimo, dove la Cineteca di Bologna ha organizzato una rassegna come hanno fatto qui al Troisi. Io una volta a Bologna, quando ero studente, ho incontrato in via Zamboni il mio doppelgänger, nel momento più chiaramente lynchiano della mia vita.

Diane, sono le 14:04.
Sono salito nella sala studio del Troisi, quella che rimane aperta 24 ore su 24 tutti i giorni dell'anno. È pieno di ragazzi che studiano, e ci sono anche un paio di personaggi più attempati, forse anche più attempati di me. Anche alcuni di quelli che erano in sala a vedere Strade perdute, sono saliti. C’è sicuramente una ragazza con un lungo impermeabile nero e gli occhi tristi, e c’è anche un ragazzo che ha il classico aspetto del cinefilo incallito. Ora dovrei provare a lavorare un po’, a mettere insieme qualche idea. Solo qualcosa mi turba: di fronte a me è seduta una ragazza con dei lunghi capelli neri, e dai lineamenti vagamente asiatici che fanno il paio con delle labbra molto carnose. Il punto è che prima, quando ha alzato la testa, mi pareva avesse invece il viso dell’Uomo Misterioso, e mi stesse sorridendo in maniera inquietante.

Diane, sono le 15:35.
Ho lasciato l’aula studio e le sue allucinazioni, anche se ammetto che lì sono riuscito a trovare una concentrazione che pareva mancarmi da tempo. Sto per prendere un altro caffè, penso proprio di meritarmelo. Nel foyer ho incontrato il mio vecchio professore di antropologia culturale che usciva dal film su Dylan: a sorpresa si ricordava di me, e di essere stato nella mia commissione di tesi. Mi pare che ci sia ancora più gente di prima, sono curioso di vedere in quanti entreranno in sala per vedere Eraserhead.

Diane, sono le 16:01. Parlo sottovoce perché sta per iniziare la proiezione di Eraserhead. Ho trovato nuovamente posto di lato, con lo spazio per distendere le gambe davanti. Volevo solo dirti che questa volta la sala è piena ben oltre la metà della capienza, secondo me raggiunge i suoi tre quarti. Ci sono molti più spettatori adulti rispetto a prima, ma sono aumentati, anche se di poco, anche i ragazzi. Entrando ho origliato la conversazione di tre signore tra i sessanta e i settant’anni, sembravano quasi mia madre con le sue sorelle. Una diceva a un’altra: “Non è esattamente il tipo di film a cui sei abituata, ma vedrai che ti piacerà”, mentre la terza annuiva con un sorriso paralizzato sul volto, lo sguardo nel vuoto, e la mano che tormentava la collana che aveva al collo.

Diane, sono le 17:51.
Rivedendo Eraserhead ho ritrovato un sacco di dettagli delle opere di Lynch a venire. Non c’è solo il pavimento con il motivo a zig zag come quello di Twin Peaks. Ci sono le sirene portuali che si ascoltano anche in Rabbits; c’è l’ossessione per le figure umane messe in maniera brutalista al muro dall’assurdità della vita e dalle giravolte dell’inconscio. Henry, poi, abita nell’appartamento numero 26, che è lo stesso - anche fisicamente, anche graficamente - numero della camera di motel in cui Fred trova Laurent nel finale di Strade perdute. Vicino a me, nel buio, sentivo qualcuno sbuffare, di fronte a questo film imperscrutabile e vertiginoso, questo Méliès sotto acido, questo dramma ridicolo e struggente e meravigliosamente disturbante. Può succedere. A me è successo di lottare accanitamente contro un attacco di sonnolenza, che però ha reso tutto ancora più interessante, abbattendo ancora più confini e barriere nella mia mente, come quando a Venezia, dopo una notte insonne, vidi Inland Empire. Ma mentre osservavo le persone scansare le pesanti tende dell’uscita e tornare alla realtà, notavo in quasi tutti loro una strana forma di placida eccitazione. Fuori, purtroppo, non suona più Bob Dylan, ma un genere di musica più consono all’aperitivo dei ventenni. Mi è sembrato di vedere di nuovo la ragazza dai lunghi capelli neri, e che di nuovo al suo viso si sovrapponesse quello dell’Uomo Misterioso. Sarà meglio che beva un bicchiere di vino rosso, che piaceva tanto anche a Lynch.

Diane, sono le 18:26.
Nonostante la fila sono riuscito a prendere quel vino. Mi sento meglio. Il foyer era pieno di gente, oramai ci sono persone di tutte le età, la fascia dei quaranta-cinquantenni si è unita a quelli più giovani e quelli più anziani. Continuo a vedere, film dopo film, sempre lo stesso strano personaggio col codino, la giacca e gli occhiali che prima e dopo le proiezioni arringa due amici che non fanno altro che annuire in silenzio. Tutti e tre sono vestiti di nero, interamente, da capo a piedi. Dentro la sala anche una ragazza col basco e una giacca rossa che sembra uscita da un film di Godard degli anni Sessanta, una coppia sposata sulla cinquantina che si tiene per mano e anche un paio di ragazzi vestiti in stile goth come non ne vedevo da tempo. Per Mulholland Drive la sala è strapiena, ho dovuto quindi rispettare il posto indicato sul mio biglietto: sono perfettamente al centro della seconda fila. E tutto sommato devo ammettere che la visuale è perfetta.

Diane, sono le 21:09.
Sono uscito dal cinema Troisi dopo quasi dodici ore di permanenza, e dopo tre capolavori firmati da un vero genio. Durante Mulholland Drive, probabilmente non a caso, ho notato per la prima volta il silenzio. Quello della sala. Era lo stesso silenzio che c’era durante Strade perdute, e Eraserhead, solo prodotto da un numero ancora maggiore di persone. Era tanto tempo che non sentivo un silenzio simile al cinema: né alle proiezioni per la stampa, né a quelle dei festival, né negli altri cinema. Lynch ha ottenuto, con le sue storie e le sue immagini, un’attenzione totale da parte degli spettatori. Quasi non si sentiva respirare. Certo, quando - specie della sua prima metà - Mulholland Drive è intriso del personalissimo senso dell’umorismo di Lynch, si potevano sentire delle risate. Ma poi: silencio. Eravamo tutti investiti dal treno onirico Lynch, dalla sua capacità di dare forma informe a un inconscio che, in questo film più ancora che negli altri, è anche l’inconscio collettivo, e quindi la materia stessa del cinema, e quindi del desiderio che è dentro di noi, e nello schermo, e che si riflette e si rispecchia senza fine. Sarà per quello che ho creduto di riconoscere in molti volti che vedevo proiettati di fronte a me quelli di tante persone che ho incrociato in queste ore. Alla fine di Mulholland Drive è partito un applauso. Un altro a metà dei titoli di coda, quando è apparso di nuovo il nome di Lynch. Un ultimo quando si sono accese le luci, ma le persone ancora non si decidevano a distogliere lo sguardo dallo schermo, e a alzarsi dalle poltrone. Fuori dal Troisi era pieno di gente, e tante persone puntavano le fotocamere dei loro cellulari verso l’insegna luminosa del cinema: lì si alternavano tutti gli screenshot tratti dai titoli di testa dei film di Lynch, tutte le grafiche “Directed by David Lynch” che abbiamo imparato a conoscere e riconoscere. Le ho filmate anche io, spinto da un’esigenza insopprimibile. L’aria è fresca ma non fredda, proprio come quella di stamane. È ora di tornare a casa.

Diane, sono le 21:28, è ancora il 30 gennaio 2025.
Ssono davanti al portone di casa. Ho attraversato veloce le strade di questa nostra strana Los Angeles millenaria, felliniana ed eterna che è Roma. Nino (come Rota, mi rendo conto adesso), il senza tetto che viene sempre a dormire sotto i balconi del palazzo, è già al suo posto. Solo che al suo fianco stasera, vicino al solito cartone di tavernello, mi è parso di scorgere un altro oggetto: uno strano cubo blu. Nino fa uno strano sorriso, io stringo le chiavi, apro il portone, salgo in ascensore, entro in casa. Le donne che abitano con me sono sedute attorno al tavolo, stanno parlando al telefono. Fissano un telefono in silenzio. Da qualche parte, su un muro, la locandinda di Gilda. Assieme a loro, assieme a me, i fantasmi dei film di Lynch, quello del loro autore, quella strana sensazione di vivere in un limbo nel quale realtà e cinema non sono affatto dimensioni distinte ma una unica, sterminata distesa di sorprese e possibilità. Buonanotte Diane, e ricorda: questo è stato il diario delle cose come le ricordo io, non necessariamente come sono avvenute.

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