Parigi, tutto in una notte di follia: incontro con la regista Catherine Corsini
Manifestanti che sembrano zombi, fumogeni in ospedale. Catherine Corsini ci racconta Parigi, tutto in una notte fra commedia all'italiana e dramma sociale sull'Europa di oggi. Si ride e ci si interroga con Valeria Bruni Tedeschi e Marina Foïs. In sala dal 10 marzo.
Una notte in ospedale, una notte in cui si ritrovano modi diversi, alieni che di solito non comunicano. Catherine Corsini dimostra come poter raccontare la società (francese, ma in fondo europea) di oggi senza pesantezza didascalica, con ironia e risate, oltre a riflessioni tutt'altro che banali. La fracture, intesa in più sensi, è il titolo originale del suo ultimo film. Parigi, tutto in una notte quello italiano, con cui sarà nelle sale dal 10 marzo, distribuito da Academy Two.
Una coppia sull’orlo della rottura si ritrova in un pronto soccorso la sera di una protesta dei gilet gialli a Parigi. Il loro incontro con uno dei manifestanti ferito e arrabbiato, manderà in frantumi le loro certezze e i loro pregiudizi. Ne abbiamo parlato con la regista, Catherine Corsini, in un incontro via zoom.
"Avevo voglia di una storia contemporanea. È importante raccontare le crisi di oggi, mentre il cinema francese si sta allontanando troppo dalla società. Il 1 dicembre 2018 sono scivolata scioccamente e mi sono ritrovato in ospedale. Ho assistito a una notte folle di infermieri sommersi da manifestanti in arrivo. Mi sono proiettata in un mondo che è diventato il film, un vero terreno di gioco, un luogo straordinario in cui far interagire persone molto differenti. Mi sono divertita a prendermi anche in giro per il mio presunto impegno sociale. Come una commedia italiana, con elementi drammatici e e il mio punto di vista sulla società di oggi."
Il film diventa quasi apocalittico, con elementi di genere come i manifestanti che cercano di entrare come degli zombi.
Molti film di genere sono anche grandi film politici. Ho pensato a Carpenter, cercando di spingere la tensione al massimo servendomi di elementi contemporanei ma comprimendoli in una notte. Una notte folle in cui condensare i gas lacrimogeni che entrano in ospedale, persone che sembrano zombi, altre che si prendono per il collo. Era formidabile variare i registri, mi intrigava molto come progetto cinematografico.
L’ambientazione in un ospedale ha messo a confronto, con il tempo necessario per guardarsi in faccia, persone che normalmente oggi non riescono a comunicare, a comprendersi, ascoltarsi.
È un luogo di attesa, in cui arrivi e aspetti delle ore. Un tempo sospeso in cui spesso si soffre, come dei bambini vulnerabili. La nostra sicurezza è messa in discussione, siamo inquieti. La vita è interrotta per un incidente, o un problema di salute. Siamo obbligati improvvisamente a prendere atto di tutta una serie di questioni sociali, come quanti medici siano presenti. Più i pazienti si trovano in situazioni difficili, più l’ospedale assorbe la violenza della società, della vita. Mi sono ispirato a quanto ho visto quella notte, ma poi ci sono tornata tante volte incontrando delle infermiere, ho passato delle notti intere. Mi sono immersa in pieno, ho preso dei rischi nel raccontare i gilet gialli attraverso una persona con una sua ingenuità, che crede sinceramente in qualche cosa. Una figura molto distante da come sono stati raccontati dai canali televisivi di notizie. Sono persone che ho incontrato. Volevo capovolgere le idee che avevamo l’uno dell’altro.
La pandemia ha cambiato la maniera di intendere il suo cinema? L’ospedale naturalmente ha sofferto molto.
Mi sono posta la questione quando ho finito di preparare il film, proprio all’inizio della pandemia. Mi sono detta che arrivavo troppo tardi, non potevamo farlo, era troppo datato. Poi mi sono resa conto invece come raccontasse proprio quello che stava succedendo. Come gli ospedali, nello stato in cui erano, assorbivano l’ondata di covid. Molto personale medico mi ha ringraziato vedendo il film. Li abbiamo applauditi dalle finestre, ma poi cos’è successo? Molte operazioni sono state rinviate, molti si sono ammalati perché non potevano curarsi. Non c’erano letti a disposizione, medici in burn out. Nessun aumento degli stipendi per il personale, una situazione ancora più catastrofica di prima. Da trent’anni c’è una disorganizzazione crescente. Non conta curare il malato, ma capire se porterà dei soldi. Se dipende tutto dai numeri non si possono curare al meglio i pazienti. Bisogna tornare alla qualità del servizio pubblico in Francia, con tutti curati alla stessa maniera.
Come mai la scelta di Valeria Bruni Tedeschi e Marina Foïs?
Volevo lavorare con Valeria più di vent’anni fa. Doveva fare un ruolo in uno dei miei film, La nouvelle eve, poi ha rinunciato e me la sono presa molto, ero arrabbiata con lei. Per vent’anni quando ci incrociavamo ci salutavamo appena. Poi, scrivendo questo ruolo, mi sono detta che sarebbe stata perfetta. Gliel’ho proposto, dicendo che questa volta non si saremmo perse, e non mi pento di aver aspettato così tanti anni e di essermi arrabbiata con lei, perché abbiamo passato delle riprese magnifiche, mi ha regalato molta della sua fantasia, della sua poesia. Si è impossessata del personaggio, che aveva molte cose di me. Le ha compreso alla perfezione arricchendole con il suo universo. Poi con Marina, che conosco bene, hanno reso perfettamente credibile la coppia. Ci siamo sempre poste l’una con l'altra tante domande, contente di tornare al lavoro dopo le prime settimane di lockdown. Il piacere di ritrovarsi per fare quello che amiamo. Per la prima volta in vita mia ho girato con non attori, come l’infermiera Aïssatou Diallo Sagna [che ha appena vinto il premio César come non protagonista ndr]. Una scoperta fantastica. Mi ha dato un gran piacere mescolarla con le attrici, la squadra del cinema con quella del personale sanitario.