Le mura di Bergamo, la ricomposizione del mosaico di una città: intervista con Stefano Savona
Presentato in conclusione del Festival di Berlino un documentario di Stefano Savona sul recupero di una città dopo essere stato epicentro italiano della pandemia. Il regista ci racconta Le mura di Bergamo.

Passare dalla cronaca a una prima storicizzazione, trasformare le rimozioni nel frattempo intervenute in metabolizzazioni. Le mura di Bergamo è un lavoro che ha richiesto tre anni, diretto da Stefano Savona, documentarista italiano fra i più apprezzati per lavori come La strada dei Samouni o Tahrir, e viene presentato nella sezione Encounters del Festival di Berlino 2023. L’arrivo nelle sale è atteso per metà marzo distribuito da Fandango.
Savona ha coinvolto alcuni suoi ex studenti della sede di Palermo del CSC e, con la produzione di ILBE Iervolino & Lady Bacardi Entertainment con Rai Cinema, ha iniziato a girare, proprio a metà marzo 2020, quando stava esplodendo la diffusione del virus a Bergamo e dintorni.
“Siamo partiti dopo aver visto le immagini dei carri militari in giro per la città che portavano le bare”, ha detto il regista incontrando la stampa italiana a Berlino. “come tutti non sapevamo cosa stesse succedendo. Mi era arrivata una telefonata da Iervolino che proponeva di girare un film sul Covid, proprio quando avevamo deciso di fare qualcosa. Ho accettato solo se avrei potuto farne un lavoro collettivo. Mi sono trovato a Bergamo, una città in cui non avevo mai messo piede in vita mia, con i pregiudizi nei confronti di una città che non conosci e ho scoperto molto diversa, bella, accogliente. Volevamo evitare di entrare a gamba tesa in un luogo diventato epicentro del dramma. Ci abbiamo messo mesi per trovare il modo giusto di raccontarlo. L’abbiamo finito di montare pochi giorni fa, e per fortuna, altrimenti sarebbe stato un film sull’attualità, facendolo oggi invece penso risponda a domande diverse e possa, se riuscito, essere interessante anche fra cinque o dieci anni. Ci siamo spostati dalla cronaca alla storia. La scommessa era questa”.
Savona non perde di vista alcuni dei protagonisti del film, mentre risponde alle nostre domande. Hanno voluto partecipare, sostenere questo racconto “fatto insieme”, che sarà presentato alla Berlinale venerdì 24 febbraio, in una sala che già si annuncia sold out. Con un pudore caratteristico dei bergamaschi si sono ritrovati, organizzandosi fra di loro e costituendo un gruppo di medici, pazienti sopravvissuti, parenti o volontari, i cui incontri costituiscono la spina dorsale dell’ultima parte del documentario, quello sul confronto, sul dopo.
Le mura di Bergamo si è posto naturalmente il dilemma di cosa girare, fino a che punto spingersi nel riprendere l’intimità del dolore. “Solo una volta sono entrato in un ospedale, al Sacco. Sono entrato e mi sono trovato davanti a trenta persone intubate. Non ho neanche tirato fuori la telecamera, sono scappato. Non mi era mai capitato, mi sono subito detto che era qualcosa che non si doveva e poteva filmare. Poi abbiamo trovato un contesto filmabile, quello dell’ospedale degli alpini, allestito nell’attuale Fiera di Bergamo. Con dei tele obiettivi, al di fuori dell’area di intervento, abbiamo girato per mesi per tenere solo pochi minuti nel montato finale. Abbiamo lasciato i malati come figure quasi astratte, rispettandone la privacy. Poi alcuni li abbiamo seguito nel corso del tempo. Davanti allo choc era difficile capire cosa stesse accadendo, i medici e i volontari erano eroi astratti. Abbiamo poi inserito dei montati tratti dall’archivio di immagini amatoriali e di famiglia Cine scatti proprio di Bergamo. Loi abbiamo fatto partendo da conversazioni con chi, intubato, si era risvegliato dal coma farmacologico. Un’incoscienza parziale, che provoca la sindrome da terapia intensiva, anche se il paziente è in parte cosciente, sogna magari per settimane e si sveglia non sapendo cosa sia stato vero. Ricordano situazioni molto precedenti, anche legate all’infanzia".
Per quanto riguarda il dopo, l’elaborazione dei lutti e delle ferite ancora vive, Le mura di Bergamo racconta un passaggio importante, “una parabola di vita per uomini di 60 o 70 anni, che si sentivano forti e si sono ammalati e hanno scoperto di avere la loro età. O magari figli abituati ancora a rispettare le indicazioni del padre che da un giorno all’altro si sono sentiti adulti e responsabili in prima persona. Poi abbiamo mostrato anche la rabbia o le manifestazioni, eravamo lì e le abbiamo filmate, ma non raccontiamo quello ma la ricomposizione del mosaico della città dopo che il Covid aveva spaccato tutto. Se ritrovi dove si attaccano al meglio tutti i pezzi allora puoi stare un po’ meglio, senza poter salvare il mondo, ovviamente. Le persone che hanno partecipato hanno sentito e collaborato a questo lavoro. È stato come un system failure di un organismo che smette di funzionare, ma grazie al lavoro dei medici e dei volontari rimane attivo nei flussi di base, per poi rimettersi in moto permettendo uno scambio dei flussi. Uno dei quali, per la città, è anche il cinema”.