Il Trento Film Festival omaggia Luc Moullet: incontro con il più ironico autore della nouvelle vague
Negli anni 60 aveva raccontato della Necessità di Trento, ora torna a distanza di sessant’anni al festival dedicato alla cultura della montagna per l'omaggio a un autore dell’assurdo e dell’ironico. Incontro con Luc Moullet, critico e regista della nouvelle vague.
Lo sguardo in bilico fra ironia e una punta di malizia, Luc Moullet rievoca con pazienza mai troppo nostalgica gli anni d’oro dei Cahiers du Cinéma. Anni fra militanza critica e applicazione pratica come cineasti, infinite discussioni e i primi passi di autori che hanno poi cambiato la storia del cinema come Truffaut, Godard e Rohmer. Ma c’era anche lui, il più ironico del gruppo, cantore dell’assurdo in documentari, corti e lunghi in cui spesso in prima persona passava davanti alla macchina da presa.
Luc Moullet, classe 1937, ha scritto nel lontano 1964 un reportage proprio per i Cahiers dall'allora giovane rassegna dedicata al cinema della montagna dal titolo Necessità di Trento. Pagine in cui scriveva, “la montagna – e quindi, anzi, e in teoria, il cinema di montagna – è parte integrante e necessaria della vita – e quindi del cinema. Il cinema di montagna non è una specialità per iniziati, e non si può farne a meno, come del cinema di animazione. È un dato di fatto e una necessità estetica”.
Ora torna a distanza di sessant’anni al 70° Trento Film Festival per un omaggio dedicato alla sua carriera di cineasta e ai suoi film più "montanari". Lo abbiamo incontrato.
“Ho sempre frequentato la montagna, e all’epoca mi interessava scoprire come si svolgeva una manifestazione allora nata da una decina d’anni, mostrare degli alpinisti e andare nelle montagne dei dintorni. Era simpatico, c’era un lato un po’ folkloristico con le guide presenti che spesso fornivano gratuitamente i loro servizi ai critici per farli salire delle pareti. Così si facevano pubblicità sperando di riavere cineasti o giornalisti come clienti.”
La montagna come il cinema prevede l’applicazione del concetto di sguardo, non verso l’orizzonte ma in verticale. Si ricorda da quando è affascinato dalla montagna?
È cominciato tutto nel 1942. Sono salito sul primo duemila a 5 anni, ho scalato il mio primo tremila a 10 anni, il primo quattromila a 20 anni e poi in seguito è arrivato il turno del primo cinquemila. È bello avere un’attività artistica e intellettuale e allo stesso tempo una più sportiva. Spesso c’è la volontà di seguire entrambe le pulsioni, morali e fisiche.
Ha continuato per tutta la carriera a portare avanti l’attività di critico insieme a quella di regista.
In Francia era frequente. Ho potuto accedere alla regia cinematografica proprio perché ero un critico. I redattori dei Cahiers du Cinéma facevano dei film che avevano successo, lavorando lì mi hanno subito chiesto di dirigere un film. C’era una sala riunione in cui tutti i critici e futuri cineasti discutevano, come una sala dei passi perduti in cui scambiavamo il nostro punto di vista. Mi piaceva parlare un po’ con tutti, erano rappresentati orientamenti diversi. Truffaut era un critico molto terra terra, il che era positivo. Era molto preciso nella descrizione dei film. Mi ricordo invece un articolo di Éric Rohmer su un film di Howard Hawks in cui parlava del western in cui praticamente non c’era alcun riferimento preciso al film.
È stato il momento in cui il cinema americano è stato apprezzato in pieno anche dalla critica francese.
Effettivamente sì. Era un cinema spesso molto strutturato in cui c’erano voci differenti all’interno di generi ben definiti.
È considerato all’interno della nouvelle vague un autore dell’assurdo, del comico.
Ho sempre amato mettere in luce persone normalmente non messe a fuoco dal cinema, avere uno sguardo sulla realtà molto ironico, mostrare le contraddizioni della vita. Ho cominciato con il cortometraggio, poi sono passato al lungo e ogni tanto mi domandavano di tornare al corto, perché eravamo un po’ delle vedette del lungometraggio. Altri cineasti hanno alternato le due forme come Agnès Varda, Jean-Luc Godard, Alain Cavalier, Paul Vecchiali. Prima il cinema era più uno sguardo oggettivo della realtà, ma senza troppe persone che si esprimevano all’interno del film. A partire dal 1955, 1960, nel cinema canadese e francese sono state inserite molte più interviste, si sono iniziate ad ascoltare molto più le persone comuni o gli specialisti. Un cinema di scambio e improvvisazione.
C’è un autore in particolare che lei o i Cahiers du Cinéma avete sottovalutato all’epoca?
Sì, per esempio John Ford era decisamente malvisto quando ho debuttato nella critica. Bisogna dire che alternava dei film su commissione ad altri più interessanti. Poteva fare tre film senza interesse secondo il principio del cinema commerciale, a cui non poteva che adeguarsi e riuscire in pieno con un quarto. È vero che sono sempre stato interessato all’aspetto economico della realizzazione di un film, bisogna ideare storie che possano essere prodotte, lavori non troppo cari come budget. Ho sempre organizzato i progetti in base ai mezzi.
Quale pensa sia la ragione dell’ammirazione con cui ancora oggi molti giovani autori guardano alla nouvelle vague?
In realtà c’erano orientamenti molto differenti all’interno della nouvelle vague. C’erano registi che si muovevano maggiormente all’interno dei canoni di una produzione commerciale come Chabrol, che ha fondato la sua opera su un cinema poliziesco o criminale, degli autori più variegati come Jean-Luc Godard o individualisti come Éric Rohmer, che partiva da due o tre attori e immaginava i loro rapporti.