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David Lynch, tutta la sua inimitabilità nell'ultimo atto di Twin Peaks

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Ora che David Lynch non è più tra noi, ho pensato di condividere la mia gratitudine per la forza della terza stagione di Twin Peaks, nel suo sintetizzare l'identità di un autore che non assomigliava a nessun altro, forte di una libertà disorientante... e confortante.

David Lynch, tutta la sua inimitabilità nell'ultimo atto di Twin Peaks

Al termine della terza stagione di Twin Peaks (2017), mi ritrovai di fronte a una sensazione di rintronante appagamento: per anni, quando ho potuto, ho cercato di spiegare a me stesso perché mi avesse segnato così tanto. L'ho fatto in messaggi privati ad amici e colleghi, qualche post di risposta sui social. Provo a farlo qui ora con più relativo ordine, sentendolo come ultimo doveroso saluto a David Lynch, che ci ha lasciato troppo presto: non perché fosse giovane, ma perché ci sembrava eterno (e in fondo lo è). Naufragare nel mare delle sensazioni è facile, specie sull'onda della commozione, perciò schematizzo i tre "livelli" che non mi faranno dimenticare mai quello che provai guardando quelle pazzesche diciotto puntate: ciò che scrivo è suggerito da quelle, ma si potrebbe applicare a molti suoi altri lavori.

Twin Peaks, David Lynch e la sorpresa

Quando guardavo le puntate, non immaginavo mai cosa sarebbe successo nella scena o nell'episodio successivo. Questo primo livello è apparentemente il più facile, il più imitabile. Molti sceneggiatori e registi sanno giocare col pubblico per mischiare le carte della narrazione più tradizionale, per tenere desta l'attenzione, per divertire, per spiazzare. Un pericolo, perché questo "gioco" può suggerire che imitare David Lynch sia una questione di tecnica, ma sarebbe un errore: arriva dalla maturità di un percorso. Lynch non confonde la nostra razionalità solo per giocare (nonostante non gli manchi di certo il senso dell'umorismo), ma perché è votato alla traduzione del subconscio in forma audiovisiva. Le scene del racconto possono apparire sconnesse, ma seguono la naturale consequenzialità emotiva del mondo onirico: magari uno suona intellettualistico nel descrivere il processo, ma non c'è niente di intellettuale. Proprio tutti sogniamo, proprio tutti siamo perseguitati dal nostro inconscio. "Spiegare" i racconti di Lynch? Si può fare, certo. Si può anche arrivare a spiegazioni razionali più o meno stabili, certo. È necessario? No. Le nostre esperienze in sogno non hanno alcun "senso", lo ammettiamo anche quando cerchiamo di raccontarle al mattino, da svegli, però sono un turbinio di emozioni chiarissime, travolgenti, coinvolgenti. A loro modo "logiche". In quest'intervista Lynch difende la SUA logica: più che l'intelletto Lynch predilige l'intuizione, unione di intelletto ed emozione. La consapevolezza istintiva che qualcosa fili correttamente.

Twin Peaks, David Lynch e i generi multipli

Secondo livello, la posta si alza. Non solo non immaginavo cosa sarebbe successo, ma ho capito presto che non potevo nemmeno immaginare in quale registro narrativo mi sarebbe stato presentato. Non sapevo in quale genere avrei collocato la prossima scena. La terza stagione di Twin Peaks è - senza soluzione di continuità - un horror, un film di fantascienza, un giallo investigativo, una commedia romantica, una comica slapstick mimica, un film erotico, un famliy movie, videoarte che respinge la fiction (il famoso Episodio 8 "Gotta light?"), uno slasher, un pulp, persino un melodramma sulla tossicodipendenza. È dolce e spietata, infantile e profonda, universale e personalissima. E qui, ammettiamolo, il livello di difficoltà si è alzato: ci sono molti registi cinefili di altissimo profilo, seppur diversi (vedasi Quentin Tarantino), ma non sembra che qui sia la cinefilia fine a sé stessa a dominare le scelte. È come se i generi diventassero i colori su una tavolozza dalla quale attingere, per dipingere (quasi letteralmente, Lynch si dilettava in altre arti) quel subconscio di cui sopra. Perché, ancora, i sogni mischiano i generi naturalmente: una cosa che sappiamo, non serve un critico cinematografico per farcelo notare. Sempre citando l'intervista di cui sopra, Lynch dichiarava la sua fiducia nel cinema, perché aveva il potere di "comunicare l'astrazione", quella che il suddetto potere dell' "intuizione" inquadra immediatamente, magari bypassando la nostra parte sinistra del cervello, quella più metodica e razionale. E i generi codificati, spesso snobisticamente liquidati nelle loro rigidità, diventano nelle sue mani all'opposto le chiavi per liberarsi dalle forme più codificate e pigre: perché nessuno di loro domina, coesistono e si alimentano a vicenda. Alchimia.

Twin Peaks, David Lynch e il tempo dilatato

Terzo livello: non immaginavo cosa sarebbe successo, non immaginavo quale registro avrebbe avuto e non immaginavo come le forme di quel registro sarebbero state sovvertite. E qui arriviamo all'ultimo triplo salto mortale carpiato. Inquadrature, tono della recitazione, sound design, musiche e soprattuto tempi di montaggio: di solito ogni genere cinematografico si trascina delle convenzioni che influenzano le scelte in questi elementi. David Lynch le ignora. Si badi bene: non le disprezza, non è snobismo. Ha una missione da compiere per restituirci il suo e il nostro subconscio: il presunto "altro mondo" in cui vive David Lynch è vicinissimo, ce l'abbiamo dentro, ma siamo talmente abituati a guardare e ascoltare in modi precostituiti, da non stupirci più davanti al nostro stesso mistero. Non ci stupiamo del miracolo della nostra percezione. E per tornare a farci stupire di noi stessi, e delle arti che abbiamo creato per raccontarci (cinema incluso), Lynch DEVE immergerci nelle scene: e lo fa posizionando la macchina da presa dove può stimolare la nostra attenzione sulla scenografia o sulla posizione del cast, non dove sarebbe più elegante e corretto piazzarla. Soprattutto, dilata i tempi per accoglierci nelle sequenze, per condividere con noi lo stupore e la curiosità verso quello che sta accadendo. Non c'è processo più lontano dagli scroll semiconsci sui social, la peste della nostra esistenza contemporanea. La terza stagione di Twin Peaks dura 18 ore, ci impone di sospendere l'isterico fluire del nostro tempo, per farci abitare qualcosa. Non per farci "vedere una serie". Una volta che si accetta questo, scopriamo noi stessi seriamente disturbati da quello che in altri film o serie ci sembrerebbe una stramberia fine a se stessa. Invece c'è l'inseguimento di una verità, la protezione del bene della nostra percezione attiva e complice, consapevole.

Epilogo: Twin Peaks, David Lynch e il danno involontario

Non mi era mai capitato prima di vedere una serie così lunga e di desiderare che non finisse. Ho guardato sì i minuti che mi separavano dalla fine di qualche episodio, ma con l'ansia di chi era già triste per i titoli di coda, resi indispensabili da performance musicali complete (sì: perché sfumarle, che fretta c'è?). La terza stagione di Twin Peaks, per me che non ero un fan enciclopedico o della prima ora di David Lynch, è stata tanto salutare e preziosa da diventare una iattura: mi sono così abituato allo stimolo costante della mia percezione, del mio gusto, del mio subconscio, mi sono così abituato a essere costantemente sorpreso e stimolato, e RISPETTATO nell'intelligenza che ho la presunzione di pensare di avere, che mi sono sentito più solo dopo l'allucinante perfetto finale. Solo, persino arrabbiato contro quest'uomo che è arrivato a toccare vette di libertà creativa, me le aveva mostrate, e ora chiudeva il sipario, lasciandomi a pensare che tutto il resto, da quel momento in poi, mi sarebbe parso predevibile e piatto. Ma al rimpianto deve sostituirsi la gratitudine: passare una vita senza provare questa sensazione, per chiunque ami una qualche forma d'arte, sarebbe stato un colossale spreco.

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