Andor, la recensione di uno strano caso nel mondo di Star Wars su Disney+
Partita in sordina, la serie di Star Wars concentrata sul Cassian Andor di Diego Luna, visto in Rogue One, si è guadagnata sul campo gli allori, costruendo via via un discorso complesso e con una sua particolare identità. La nostra recensione.
Andor potrebbe essere considerata l'origin story del personaggio di Cassian Andor, interpretato da Diego Luna e visto al cinema in Rogue One: A Star Wars Story: da una vita di espedienti su Coruscant, alla ricerca della sorella scomparsa, a un involontario ruolo nella nascente Ribellione contro l'Impero, passando per una prigionia di cui sarebbe un delitto raccontare qualcosa. La serie Andor fortunatamente però, col passare delle settimane e l'accumularsi dei suoi dodici episodi su Disney+, si è dimostrata qualcosa di più simbolico e intrigante: perché è anche l'origin story concreta e sfaccettata della Ribellione.
Era dall'inizio delle serie tv su Disney+ dedicate al mondo di Star Wars che aspettavamo di vedere protagonista il lato "sporco" del mondo creato da George Lucas: non l'aura nobile dei cavalieri Jedi o il codice di condotta mandaloriano, ma proprio gli uomini comuni, che finora erano apparsi come comprimari o come componenti di una resistenza già sicura di se stessa, consapevole dei suoi limiti e del suo coraggio. Avevamo sperato in una maggiore fisicità in The Book of Boba Fett, che poi è svisato parecchio su un tono alla Mandalorian. Con Star Wars: Andor non c'è più da attendere, perché le puntate concepite da Tony Gilroy, cosceneggiatore sì di Rogue One ma altrove esperto di thriller politici come i Bourne, si configurano a poco a poco come il complemento ideale di un fattore importante della poetica lucasiana.
Con l'un tempo bistrattata trilogia prequel (giustamente rivalutata), Lucas aveva raccontato in modo chiaro e coinvolgente la nascita di una dittatura, passo dopo passo, cedimento della democrazia dopo cedimento. Era un discorso che ancora oggi rende molto affascinanti quei tre film, ed è un discorso che Gilroy e i suoi registi (Toby Haynes, Benjamin Caron e Susanna White) proseguono qui con successo, da un'altra angolazione. C'è un contatto tra quelle storie e Andor, che si occupa invece di personaggi in basso alla catena alimentare ma decisi a ritrovare l'orgoglio calpestato in questa nazificazione della società: è la vicenda della senatrice Mon Mothma (qui Genevieve O'Reilly). Lei è una combattente in incognito, un ingranaggio dell'articolata narrazione di Andor, radiografia di un movimento di resistenza, da chi rischia la propria posizione non sul campo, a chi invece mette in gioco la propria vita in azioni pericolose, però magari meno convinto di ciò che fa. Le sceneggiature non dimenticano per strada la spietatezza, ma con l'intelligenza di vederla a 360°: se gli imperiali Dedra (Denise Gough) e Syril (Kyle Soller) celano a malapena un effettivo godimento nell'alimentare la morsa della dittatura, la spietatezza del capo morale della Ribellione agli albori, Luthen (Stellan Skarsgaard), è ambigua e ben evidenziata dagli altri personaggi, Andor in testa.
"La migliore serie di Star Wars finora"? Non pensiamo sia il caso di spingersi a tanto, perché abbiamo trovato la seconda metà della stagione nettamente più intrigante della prima, anche se il crescendo ha rinforzato una partenza un po' troppo lenta. C'è peraltro una strana cesura intorno alla metà della stagione, divisa quindi in due sottotrame nelle quali si trova coinvolto Cassian, tanto da far pensare che due stagioni siano state condensate in una sola: a prescindere da come sia andata, è un bene che sia stata presa questa strada. L'avventura carceraria di Andor è uno dei momenti più belli vissuti nella saga, inutile girarci intorno, anche grazie alla solidissima ed espressiva interpretazione di Andy Serkis nei panni di Kino. A quel punto di riflesso la prima parte da "heist movie", la grande rapina ai danni dell'Impero, anticipata e preparata con pedanteria e qualche lungaggine, diventa più sensata come primo tiepido passo del protagonista verso una presa di coscienza, che procede parallela a quella dello spettatore nei riguardi della serie e del suo fine ultimo.
Ma non definiamo Andor "uno strano caso" solo per questo crescendo di apprezzamento, ma anche perché ha una qualità rarissima nell'ambito di queste produzioni legate a grandi marchi, gestite da major: è uno dei pochi prodotti legati a Star Wars a essere autosufficiente. Non soltanto in merito allo svolgimento in sé delle vicende: per quello basta qualche dialogo per consentire allo spettatore non edotto di capire cosa succede e in quale contesto ci si muove. Ci riferiamo piuttosto a un'autosufficienza emotiva: potremmo sbagliarci, ma Andor potrebbe essere davvero apprezzato al 99% senza conoscere o amare a prescindere ciò di cui si parla. È praticamente il polo opposto di Obi Wan-Kenobi di qualche mese fa, che gestiva miti tali da coprire le vicende raccontate, in un tripudio di continuity, ammiccamenti, riferimenti e fanservice. In questa immaginaria scala The Mandalorian si pone nel mezzo, ma Andor parte timido e diffidente come il suo protagonista: è una serie che impiega del tempo a convincersi e convincere della sua forza, sa che deve farsi valere sul campo, ma quando ci riesce... non ha più niente da perdere e non fa prigionieri, aiutata da una fisicità realistica e spietata della messa in scena, che ha poco di elegante ma molto di epico, specie nel finale. Scopri Disney+
- Giornalista specializzato in audiovisivi
- Autore di "La stirpe di Topolino"