Kingsman: il Cerchio d'Oro: la nostra recensione dello spy-action britannico
Il sequel supera il primo film per trovate, performance, montaggio, ironia e villain di turno.
"Le piacciono i film di spionaggio?"
"Oggigiorno sono tutti troppo seri per i miei gusti, ma i vecchi film sono fantastici, con le loro sceneggiature improbabili".
In questo dialogo fra Harry Hart/Colin Firth e Richmond Valentine/Samuel L. Jackson, Matthew Vaughn ha nascosto, nel 2014, il suo disappunto nei confronti della recente deriva dark e drammatica dei Bond movie, inneggiando all’iperbole e a un pizzico di giusta inverosimiglianza a discapito del realismo e palesando la sua intenzione di sovvertire, in Kingsman: Secret Service, ogni singola regola del genere, senza tuttavia scivolare nella parodia. Una strabiliante e pazza sequenza in una chiesa in perfetto stile film di zombie, l’aplomb di un Colin Firth più elegante di qualsiasi 007 tranne forse Sean Connery e una miniserie a fumetti di Mark Millar come materiale di partenza hanno dimostrato che il ragazzo del 1971 non scherzava, e un incasso mondiale pari a 400 milioni di Euro ha reso giustizia alla sua sacrosanta ribellione (una ribellione "educata", perché pur sempre british).
Così, gasandosi un po’, il regista ha concepito per il sequel qualcosa di ancor più ipercinetico, anarchico e citazionista, complice anche la fiducia del pubblico e dei suoi attori. E visto che parliamo di citazioni, forse non tutti sanno che Vaughn è andato a rispolverare addirittura L’impero colpisce ancora, in cui Luke Skywalker Jedi all’80% ha ispirato il nuovo Eggsy, diventato sì un Kingsman, ma non un Kingsman infallibile su tutta la linea. E però Eggsy se la cava benissimo in Kingsman: Il Cerchio d’oro, come si vede nella scena iniziale dentro a un cab londinese in cui lotta con un ex "compagno di corso" che credevamo morto.
Già questa prima sequenza, che permette al film di cominciare "in media res", dà la misura di un numero due che supera di gran lunga il numero uno, e non solo per la maggiore complessità delle scene d’azione, per un montaggio ancora più sofisticato e un inimitabile dispiegamento di gadget e accessori, ma perché, nonostante il soggetto si debba a Millar, nessun personaggio sembra uscito da un cinecomic, filone in cui di tanto in tanto qualcuno è monodimensionale o macchiettistico. In Secret Service era il villain di Jackson ad essere tagliato con l’accetta, cosa che non capita mai alla new entry Miss Poppy, regina del narcotraffico che nella giungla del Sudest asiatico ha ricreato gli anni '50, facendo costruire un beauty salon, un diner, un teatro e perfino un bowling. Miss Poppy è una cattiva fe-no-me-na-le, una Martha Stewart dal dente avvelenato, una reginetta del ballo finita male che Julianne Moore rende la sorella malvagia della Cathy Withaker di Lontano dal paradiso, viaggio, appunto, nell'inferno dei Fifties. E’ nella costruzione non solo di questa donna, ma anche dell’universo in cui si muove, che emerge il profondo amore di Vaughn per la cultura pop e la sua strabiliante inventiva, l’inventiva di un filmmaker che sa mescolare ad American Graffiti e a Happy Days l’aura glam rock di Elton John. Già, perché c’è pure lui ne Il Cerchio d’Oro, e sferra calci con i suoi stivali d’argento col tacco, ed è una delle ragioni per cui vale la pena andare al cinema.
Le sue scaramucce con Poppy e la sua banda ci avvertono che il film, oltre a proseguire nell’esplorazione di un rapporto maestro-allievo (fra Eggsy e Hart) sulla scia di My Fair Lady, intende inscenare una guerra di stile fra il paese di lingua inglese del vecchio continente e gli Stati Uniti (con l’iconografia che da sempre li accompagna). Certo, la classe sta dalla parte del team della sartoria di Savile Row, ma Matthew Vaughn ci tiene a celebrare l’intraprendenza americana e il cinema di cowboy di cui si è nutrito da ragazzino. Da quel cinema, l’autore di Kick Ass si porta dietro cappelli e stivali (che fa indossare a Channing Tatum alias Tequila), e un lazo, che affida a un agente chiamato Whiskey che sta a Burt Reynolds come Hart/Galahad sta a David Niven. Last but not least, il regista si inventa un'Intelligence che ha il proprio quartiere generale in una distilleria a forma di bottiglia, dove un capo di nome Champagne e con il volto di Jeff Bridges usa il liquore dal colore ambrato perfino per profumarsi. Se non è genialità questa…
Se Kingsman: Il Cerchio d’Oro è attento all’evoluzione dei suoi protagonisti - e rende più vulnerabile Hart e più tenero Merlino - non si rinnova invece nell’invenzione della minaccia a cui devono far fronte i Kingsman. Come nel primo film, anche qui la popolazione mondiale rischia una drastica diminuzione dopo essere precipitata nella follia, solo che stavolta a essere in pericolo non sono semplici acquirenti di SIM ma chi fa uso di sostanze stupefacenti. In questa invenzione narrativa dobbiamo leggere una condanna? O, al contrario, un atteggiamento indulgente? Probabilmente il film non prende una precisa posizione a riguardo, scegliendo semplicemente di rifarsi in qualche modo all’attualità e recuperando, in originalità, nel momento in cui rende la sua spia monogama invece che promiscua.
- Giornalista specializzata in interviste
- Appassionata di cinema italiano e commedie sentimentali