King Arthur: la recensione del film di Guy Ritchie con Jude Law e Charlie Hunnam

09 maggio 2017
3.5 di 5
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Il regista inglese si diverte a rileggere il mito in chiave fantasy e fracassona.

King Arthur: la recensione del film di Guy Ritchie con Jude Law e Charlie Hunnam

Quando il re di Camelot Uther (Eric Bana) viene tradito e ucciso da suo fratello Vortigern (Jude Law), suo figlio Pendragon si salva per miracolo, venendo poi cresciuto da prostitute in quel di Londinium. L'adulto Artù (Charlie Hunnam) è uno scaltro delinquente di strada, abile a farsi rispettare e ad arricchirsi, ma la sua vita sta per cambiare: Vortigern sa che è sopravvissuto e sta obbligando tutti i maschi del regno a provare la fatidica estrazione della Spada dalla Roccia. Quando verrà il turno di Artù, saprà abbracciare il suo destino di legittimo re?

E' facile la tentazione di storcere il naso davanti a un trailer di un King Arthur partorito da Guy Ritchie, il regista inglese tarantolato che non si ferma davanti a niente pur di rendere dinamiche anche le indagini di uno Sherlock Holmes, provocando i fan a scegliere da che parte stare. King Arthur si presenta già nei primi venti minuti perfettamente aderente all'idea di cinema dell'autore, che gigioneggia compiaciuto con il montaggio, la saturazione sensoriale, il suo abituale otto volante sul frame rate e i movimenti di macchina continui. Questa volta, però, decidere da che parte stare è meno compromettente.

Anche se il mito letterario (e popolare) di Artù si rifà a un sovrano realmente esistito nel VI d.C., la sua mutazione in figura leggendaria nel corso del Medioevo ha ibridato la storia con la fantasia e la fiaba, fino ad adattare le vicende del Ciclo Bretone alle culture con le quali è venuto in contatto (non solo francese, ma anche spagnola e persino italiana). Qualsiasi enciclopedia, e non parliamo solo di Wikipedia, vi confermerà che lo stesso genere fantasy glorificato dal Signore degli Anelli ha le sue radici nelle diramazioni libere di questi archetipi, adattate alla cultura di ciascun periodo storico. Non sentiamo quindi di doverci stupire se Ritchie avvia il racconto con un assedio a colpi di elefanti giganti che fa molto Peter Jackson, e ancora meno ci stupiamo per altri echi che sentiamo nella sua trasposizione: oltre all'eco shakespeariano del tradimento in funzione della conquista del potere, sfideremmo chiunque a non vedere in Artù e i suoi ribelli qualcosa di Robin Hood, così come Vortigern è un Principe Giovanni dopato di magia nera.

Per completare il quadro, siccome gli ultimi anni nel cinema di intrattenimento sono caratterizzati dall'estetica del cinecomic, i poteri di Excalibur sono qui sullo schermo quasi indistinguibili da quelli di un qualsiasi superuomo al quale siamo abituati, tra Marvel e DC (e potrebbe questa essere pure una preziosa occasione per fare mente locale sulla dipendenza del mito del supereroe dai miti antichi). La coreografia degli scontri più spettacolari richiama alla mente le arene di un action game, sottolineando che questa analogia per noi non ha valore dispregiativo.

La tentazione di paragonare il chiasso e la mano pesante di Ritchie con quella di Zack Snyder è forte, lo ammettiamo, ma quel che salva il buon Guy è la capacità di non prendersi mai troppo sul serio: i personaggi non mancano del tutto di statura drammatica, ma Ritchie (che ha collaborato al copione) è sempre molto attento a livellare la sceneggiatura sulla sua idea di rappresentazione cinematografica, quindi non si avverte uno scarto tra un contenuto pretenzioso e un approccio chiassone. Il King Arthur di Guy Ritchie è un film leggero su tutti i livelli di lettura, e mantiene un'impronta autoriale riconoscibile nell'ambito di una grande produzione: anche se tale impronta non è esente dalla maniera, è piacevole per una volta avvertire che la CGI, il 3D, il sound design e l'originale colonna sonora (di Daniel Pemberton) sono usati con un criterio.

Avanziamo però solo una perplessità. Accettiamo l'appropriazione contemporanea del mito, però ci viene da pensare che il bistrattato omonimo King Arthur (2004) di Antoine Fuqua con Clive Owen avesse frecce che Ritchie al suo arco non ha. L'identità del nuovo King Arthur equivale a quella del suo regista, non riguarda il suo contenuto contaminato, mentre il precedente King Arthur, pur indebolito da una messa in scena più anonima, aveva scelto una coraggiosa strada opposta: limitare la fantasia e provare il recupero della vera figura storica. Il King Arthur di Guy Ritchie riflette un cinema autoreferenziale, il King Arthur di Fuqua cervava un perché nella sua sostanza, stimolando una riflessione su un periodo storico. Divertiva sicuramente di meno, ma emanava una curiosità che a Ritchie non sembra interessare affatto. Non è un obbligo, però dirotteremmo gli insegnanti volenterosi a organizzare una matinée con quel vecchio King Arthur: qui basta solo allacciarsi le cinture.



  • Giornalista specializzato in audiovisivi
  • Autore di "La stirpe di Topolino"
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