Sudestival al via: incontro con il montatore Marco Spoletini, dal documentario a Matteo Garrone
Al via il Sudestival, evento lungo quattro fine settimana di fine inverno a Monopoli, che si apre con una masterclass di Marco Spoletini, montatore di tutti i film di Matteo Garrone. Lo abbiamo intervistato.

Fine inverno sul mare di Monopoli. Al via l’appuntamento con Sudestival, che per quattro fine settimana e quindici giorni presenterà 39 proiezioni e ospiti, oltre a una retrospettiva dedicata a Nino Manfredi. Un “festival lungo un inverno” che torna in presenza, inaugurato da Ghiaccio di Fabrizio Moro e Alessio De Leonardis, con Giacomo Ferrara e Vinicio Marchioni. Apertura dedicata anche alla masterclass di uno dei principali montatori del nostro cinema: Marco Spoletini, collaboratore abituale, fra gli altri, di Matteo Garrone. Lo abbiamo intervistato.
Com'è cambiato il montaggio, dagli inizi della sua carriera, a metà anni Novanta, a oggi?
Per ragioni anagrafiche, la mia formazione si è basata sulla lavorazione classica in pellicola. Quella è la forma mentis dei primi lavori, ma sono abbastanza giovane da potermi adattare al montaggio digitale, che ha dei pro e dei contro. Avrebbe dovuto dimezzare per ragioni produttive i tempi di pensiero, rispetto alle grandi quantità di materiale da visionare in pellicola. Ma il computer non può essere più veloce di me, pur avendo portato vantaggi notevoli, soprattutto dal punto di vista "linguistico". Ha reso possibili cose tecnicamente impossibili prima.
Il suo rapporto con il set, dal punto di vista creativo?
Ognuno deve averela sua realetà. Se il montatore viene chiamato sul set è per tamponare qualche mancanza, perché qualcuno sta svolgendo il suo ruolo con un po’ di fatica. Quindi è un limite. Mi piace pensare che un film sia un lavoro corale, in cui il montaggio pervade la scrittura, le riprese, la recitazione, tutte le fasi del lavoro. Il regista ha il diritto di cercare strade non standardizzate. Il montatore sul set ha la responsabilità di dire se manca qualcosa, se una scena è coperta, ma in una visione più standardizzata. Se un regista vuole fare un piano sequenza di quattro minuti, è gusto lasciarglielo fare, con tutti i rischi del caso.
Si dice spesso come il montaggio sia una terza scrittura, dopo la sceneggiatura e le riprese. Che tipo di rapporto ha con le due fasi precedenti, dal punto di vista creativo e pratico?
Molto spesso mi capita di venire interpellato prima delle riprese. In quel caso, ragionando per immagini, puoi capire se qualcosa va assestato nella sceneggiatura, magari omettendo dei dialoghi, delle spiegazioni, sapendo che con uno sguardo ottieni lo stesso risultato senza ricorrere a un eccesso di parole, che è un po’ il difetto del cinema italiano, specialmente della fiction. Un approccio didascalico, con la paura che non si capisca, quando mentre spesso si potrebbe dare spazio di interpretare allo spettatore.
Lei sta vivendo nella sua carriera una situazione non frequente, quella di aver montato tutti i film di un autore come Matteo Garrone. Com'è evoluto il vostro rapporto?
È un’attrazione degli opposti. Scherzando, ma fino a un certo punto, all’inizio trovavo il suo materiale inmontabile. Lui era totalmente privo di una formazione di linguaggio classica, io ero molto scolastico. Ci siamo trovati nel mezzo. Io mi sono liberato di tanti orpelli e rigidità. All’inizio Matteo non batteva nemmeno il ciak. Ci mettevo più tempo a sincronizzare il materiale che a montarlo. Mi considera il suo termometro, il suo primo spettatore obiettivo. Sa che se una cosa istintivamente non mi piace vale la pena capire perché. Siamo due istintivi, facciamo passare le emozioni prima dalla pancia che dal cervello. Nel ventaglio di alcuni ciak simili, quello che mi piace di più è quello che teniamo maggiormente in considerazione. È uno scambio continuo, ci unisce anche un’amicizia fuori dal lavoro, solidificata nel tempo.
In che modo cambia il suo lavoro, nel montare Aldo, Giovanni & Giacomo o Alice Rohrwacher, come è capitato a lei?
Gli incontri con Aldo, Giovanni & Giacomo e Garrone, ad esempio, sono avvenuti a un anno di distanza. Ho capito che avevo le sfaccettature per fare entrambi questi film. Ho sempre mescolato l’alto e il basso. Mi piace la commedia come il cinema d’autore. I miei gusti sono vicini a entrambi i mondi. Certo, sono canoni e linguaggi completamente diversi. È stato utile poi fare Pinocchio, pellicola d’autore ma con velleità commerciali, avendo unito le due cose. Un film in uscita a Natale, con scadenze serrate ma anche diverse possibilità di far emergere in un certo modo una scena. Per esempio prestando attenzione a dialoghi che fossero compresi anche dai bambini.
Invece il documentario?
È un discorso a parte. Puoi metterselo quando sei giovane e non devi guadagnare. Non sai quando finisci, quando inizi un documentario. Ho lavorato a L’esplosione di Giovanni Piperno, in cui dovevano buttare giù delle torri del Villaggio Coppola, presenti anche ne L’imbalsamatore e Dogman. Per vari intoppi burocratici ci siamo trovati ad spettare che succedesse qualcosa. Sono tempi che non puoi prevedere. Va bene quando sei giovane e non hai scadenze economiche. Però è una scuola che all’inizio va fatta, ti torna utile.
Ha lavorato anche con Gus Van San. Come è andata?
Ho fatto con cui la campagna di Gucci dello scorso anno. È stata una bella sorpresa, una persona modesta e chiusa in sé stessa senza essere distante. Ci siamo fatte molte chiacchiere e risate. È atipicamente americano, si rifa a un cinema più europeo come gusto e cultura. Alla fine è stato molto soddisfatto, ci siamo trovati bene.