Giocare a fare Dio: il film di Nolan e l’ossessione che ha distrutto Oppenheimer
“Non la capiranno se non la temono. Non la temono se non la vedono.”

- Fissione e fusione: il racconto a doppio strato
- Il corpo del genio
- Il deserto e la rivelazione
- Il non detto che fa male
- Il processo della colpa
- Il paradosso finale: giocare a fare Dio è un’illusione
La frase scelta da Christopher Nolan per raccontare la nascita della bomba atomica è anche il cuore pulsante del suo film: Oppenheimer non è un racconto di guerra, ma di potere, fede, colpa e destino. E non a caso, nel volto scavato di Cillian Murphy si riflettono tutti questi aspetti insieme. Il fisico teorico diventa così un moderno Prometeo: non solo colui che porta il fuoco, ma anche chi paga il prezzo per averlo fatto.
Fissione e fusione: il racconto a doppio strato
Nolan struttura il film su due linee narrative distinte e complementari. La prima, a colori, ci catapulta nella mente di Oppenheimer, tra visioni quantistiche, ambizioni e tormenti. È una corsa inarrestabile, dove il tempo è la vera ossessione: tutto si muove con il ritmo del countdown che ci condurrà al test Trinity. La seconda, in bianco e nero, è quella della memoria e del giudizio, con un ritmo più asciutto ma altrettanto tagliente. “Fissione” e “fusione” non sono solo concetti fisici: diventano modi di raccontare un uomo che si divide e si consuma.
Il corpo del genio
Cillian Murphy incarna Oppenheimer con una dedizione estrema. Il suo corpo magro, le mani intrecciate, lo sguardo sempre altrove: tutto in lui comunica un’urgenza che sfiora il disagio. Non c’è tempo per spiegare, né per respirare. E in questo caos calcolato, lo spettatore è costretto a rincorrere concetti, volti, eventi. Ma in mezzo a tutto, è il suo silenzio a guidarci. Nolan non ci chiede di capire la fisica, ci chiede di sentire il peso che essa comporta.
Il deserto e la rivelazione
Quando arriviamo a Los Alamos, Oppenheimer diventa leader, sindaco, sceriffo di una città costruita per creare la fine del mondo. Ed è proprio in questo scenario mitologico, tra sabbia e acciaio, che Nolan piazza il cuore emotivo del film: il test Trinity. Nessun effetto speciale esagerato, nessuna glorificazione. L’esplosione arriva nel silenzio più totale, come un vuoto cosmico. È lì che si compie la rivelazione, non tanto tecnica quanto spirituale. L’uomo ha davvero giocato a fare Dio e la punizione è già cominciata.
Il non detto che fa male
Ciò che colpisce di più è ciò che non vediamo. Nessuna immagine di Hiroshima o Nagasaki, nessuna vittima. Ma i suoni, i rumori distorti, il volto di Oppenheimer che guarda una platea in festa e immagina corpi bruciati: tutto parla più delle parole. Le urla giapponesi sovrapposte alle risate americane sono un colpo al cuore. Nolan sceglie di non mostrarci l’orrore, ma di farcelo sentire sottopelle.
Il processo della colpa
La parte dei processi e delle manovre politiche, rallenta il ritmo ma amplifica il peso morale del film. Non si parla più di scienza, ma di responsabilità. È qui che il film rischia di sovraccaricare, con dialoghi fittissimi e una quantità di personaggi quasi ingestibile. Ma se si accetta di perdersi, ci si ritrova davanti a una riflessione lucida sul potere e sul modo in cui la storia condanna, anche quando finge di assolvere.
Il paradosso finale: giocare a fare Dio è un’illusione
Gli ultimi istanti del film racchiudono il nucleo più profondo del racconto di Nolan: non si torna più indietro. Il tempo della scoperta è finito, quello della consapevolezza è appena iniziato. Oppenheimer guarda Einstein, guarda il cielo, e lo spettatore capisce che qualcosa è cambiato per sempre. Nessuna parola, solo uno sguardo che contiene tutto: il rimorso, la grandezza, la rovina.
È qui che Nolan affonda il colpo. Il silenzio diventa più assordante dell’esplosione. E in quel vuoto che segue la bomba, in quello sguardo fisso, sembra riecheggiare una frase mai pronunciata, ma inevitabile: “Credo di aver distrutto il mondo”.
Come gli scorpioni della storia raccontata nel film, incapaci di colpire senza avvelenare sé stessi, anche l’uomo che ha liberato l’energia dell’universo ha firmato la sua condanna. Voleva comprendere l’infinitamente piccolo. Ha risvegliato qualcosa di troppo grande. E ora non può che restare lì, a guardare il fuoco che ha acceso.