Interviste Cinema

Il documentario italiano in prima fila agli EFA 2019: incontro con i nominati Agostino Ferrente e Beniamino Barrese

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Due su cinque sono italiani i documentari migliori del 2019 agli European Film Awards.

Il documentario italiano in prima fila agli EFA 2019: incontro con i nominati Agostino Ferrente e Beniamino Barrese

Due su cinque dei documentari europei migliori dell’anno sono italiani. Non male davvero quanto ha decretato l’Academy del cinema europeo, che ha nominato Selfie di Agostino Ferrente e La scomparsa di mia madre di Beniamino Barrese agli European Film Awards 2019, assegnati la sera del 7 dicembre a Berlino. Entrambi si dicono entusiasti, come non esserlo, orgogliosi di rappresentare una scuola che negli ultimi anni sta regalando film di notevole valore. Oltretutto, ci fanno notare in un incontro in un hotel del centro della capitale tedesca, i loro sono lavori che scavano nella quotidianità e nelle persone, non sono legate a forti temi come gli altri documentari candidati. For Sama, sulla Siria, è il favorito per Ferrente, mentre Barrese ha molto amato il macedone Honeyland, legato alla tematica ambientale e trionfatore al Sundance. Il quinto candidato, a proposito di grandi questioni, è Putin’s Witnesses di Vitalia Mansky.

Selfie ha come protagonisti due ragazzi che si raccontano con uno smartphone nel cuore di un quartiere dello spaccio di droga a Napoli, mentre La scomparsa di mia madre il rappoorto fra un giovane e la madre, la ex celebre modella Benedetta Barzini, che si è allontana dal glamour della sua professione giovanile e, anziana, critica il ruolo pubblico della donna in occidente. Due racconti intimi e apparentemente minimi, molto ben fatti, che riescono a penetrare nelle pieghe ordinarie della vita di tutti noi, senza bisogno di cercare Storie con la maiuscola.

Selfie, uscito a giugno, è stato girato con un telefono cellulare, ma “l’uso della tecnica non deve essere fine a se stesso”, ci ha detto Ferrente, “l’ho fatto per mimetizzarmi meglio e avere una spontaneità maggiore dei protagonisti, che si guardano e letteralmente si specchiano nel display, abolendo il filtro dello spettatore. La mia storia è universale, a giudicare dalle reazioni che ho avuto presentando il film in tutto il mondo, in ogni continente alla fine c’era regolarmente qualcuno che mi si avvicinava per dirmi che avevo raccontato la loro realtà. Avrebbe potuto essere un’altra città, Napoli non ha certo l’esclusiva dell’emarginazione sociale, anche se è una città che amo, come la sua musica, che da stonato uso in maniera narrativa e non decorativa. Il napoletano è una lingua bellissima, piena di metafore che, senza offesa, l’italiano è incapace di esprimere. La devianza non è genetica, in Italia leggo che aumenta il divario fra famiglie ricche e povere, a Napoli l’abbandono scolastico è il primo nutrimento della criminalità, aumentando la manovalanza. Non ho racontato i boss pieni di soldi, che fanno la bella vita, ma i piccoli impiegati della criminalità che portano il pane a casa”.

Una lavorazione anche dolorosa, quella di Selfie, come sottolinea Agostino Ferrente. “Ho vissuto insieme al loro la morte di due ragazzi, durante le riprese, soprattutto Davide, ucciso senza motivo da un carabiniere, scambiato per un latitante. I due ragazzi protagonisti erano amici suoi. È doloroso girare film così, i protagonisti sono persone, non cristallizzati come nei film di finzione. È difficile essere felice per i successi ottenuti dal film, visto che la realtà di disagio non cambia. La mia sfida è stata quella di parlare della morte raccontando la vita, come sarebbe stata quella di Davide se non fosse stato ammazzato. Io stesso vendo da un sud marginale e disagiato avrei potuto diventare criminale, come molti amici e coetanei, ma non l’ho fatto perché non ne ho il talento, non perché sono onesto.

Un documentario realizzato con la francese Arté, che l’ha inserito, senza distinzione fra finzione e documentario, fra i dieci film della manifestazione Arte Kino Festival. Potete vedere e votare Selfie online per tutto il mese.

Schivo e timido, Barrese sembra non crederci di essere qui a Berlino, nominato per La scomparsa di mia madre fra i cinque documentari europei dell’anno. “Non so neanche se sia giusto”, si schernisce, dicendo di aver visto molti film migliori del suo nel corso delle tante visioni che si è regalato girando per i festival di tutto il mondo. Il suo preferito, come detto, è Honeyland, che vuole giocarsi fino in fondo le sue carte anche per gli Oscar. “È il primo film che faccio come regista, normalmente sono direttore della fotografia. Penso che il successo dipenda dall’ingenuità narrativa che lo rende poco classificabile e interessante per lo spettatore, poi dalla for della protagonista, che intercetta un bisogno molto contemporaneo, nella sua ribellione allo stereotipo della donna, cercando di costruire una diversità al femminile.”

Un rapporto di tensione, quello fra protagonista e regista, che diventa anche personaggio dialogando con la madre. “È una struttura costruita, un conflitto più orchestrato di quanto sembri, in una drammaturgia in cui ho messo da parte la mia intelligenza, delinenando lei più scura di quanto sia nella vita. Volevo far emergere il conflitto con un esponente della generazione legata a un uso dell’immagine spesso invadente e impertinente, in cui ogni cosa è mostrata, dalla mattina alla sera, sitazione che come fotografo soffro molto e dall’inizio dichiaro di volerla riprendere in occasione della sua decisione di voler andare via, abbandonando tutto e tutti. Mi rendo conto che dal 2008, quando mi sono iscritto a facebook, l’invadenza delle immagini nella mia vita è diventata totale. Portando il film in giro, specie dove mia madre non è conosciuta, ho visto apertura totale, specie in medio oriente, oltre a interesse per dialogare con chi critica l’immagine e il ruolo della donna, ma dall’interno e in occidente”.

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