Italica Noir I ferri del mestiere: intervista a Jake La Furia, voce narrante della seconda stagione della docu-serie
La 33esima edizione del Noir in festival ha ospitato, in anteprima, Italica Noir I ferri del mestiere, seconda stagione della miniserie di genere true crime che racconta la criminalità milanese e che sarà disponibile in esclusiva su Mediaset Infinity dall'11 dicembre. Abbiamo intervistato la voce narrante dei 4 episodi: il rapper Jake La Furia.
Già da tempo il Noir in Festival, nato come manifestazione letteraria e cinematografica di genere, ha aperto le porte alle serie tv, e quest'anno ne ospita e mostra in anteprima una che racconta la Milano noir di Giorgio Scerbanenco e di Andrea Pinketts servendosi di uno strumento potente e incisivo: l'animazione. Il cinema Arlecchino, sala storica in zona San Babila, ha ospitato infatti la seconda stagione di Italica Noir, una docu-serie di genere true crime che arriverà in esclusiva su Mediaset Infinity il prossimo 11 dicembre. Co-prodotta da Infinity LAB, si compone di quattro episodi che prendono il nome da quattro zone del capoluogo della Lombardia dove si dormono sonni tutt'altro che tranquilli: Lambrate, San Siro, Isola e Magenta. Si va dagli anni '40 all'inizio degli anni '80 e, in puntate di soli dieci minuti in cui coesistono diverse tecniche di animazione, il regista Federico Cadenazzi e lo sceneggiatore Girolamo Lucania descrivono con precisione un universo criminale ogni volta uguale solamente a sé stesso e popolato da bande che spesso portano a termine colpi del secolo, organizzati nel più piccolo dettaglio e perciò infallibili. I ladri di cui si narra sono gentiluomini come Il Solista del Mitra, che regalava una rosa rossa a una donna prima di rapinarla, ex partigiani come Ugo Ciappina, che ha "ripulito" indisturbato un furgone portavalori, e banditi indomiti come Turatello, colluso con la Mafia e amico dell'immarcescibile Renato Vallanzasca, che dà l’avvio a Italica Noir: I ferri del mestiere.
Mentre i fucili sparano, le bombe e esplodono e nelle carceri arrivano lettere di donne invaghite del furfante di turno, la partita si gioca, all'inizio, fra i malavitosi e una polizia che spesso chiude un occhio, ma quando nelle sparatorie vengono coinvolti i civili, il patto di non belligeranza fra gli emissari del bene e le "facce del male" viene meno e si scatena l'inferno.
Se nella prima stagione i misfatti di Italica Noir venivano raccontati dalla voce fuori-campo di Adriano Giannini, per la seconda è stato scelto il rapper Jake La Furia. Membro del gruppo Sacre Scuole poi ribattezzato Club Dogo, Jake La Furia comincia la carriera da solista nel 2012, e adesso è famoso anche come conduttore radiofonico. A lui dobbiamo il programma Jake Hit Up, trasmesso su Radio 105. Da milanese DOC, Jake La Furia ha molto amato accompagnare con la sua ritmata cantilena da rapper le vicende narrate nei nuovi episodi della miniserie e volentieri ha fatto promozione nella terza giornata del Noir in Festival 2023. Anche se non siamo grandi esperti di musica rap, abbiamo voluto incontrarlo, per farci raccontare prima di tutto l'inizio di questa sua nuova avventura: "Conoscevo e avevo amato la prima stagione di Italica Noir" - ci ha risposto - "e, banalmente, sono stato chiamato da Federico Cadenazzi e Girolamo Lucania. Probabilmente mi hanno cercato perché ho fatto un disco che si intitola 'Ferri del mestiere' e che ruota molto intorno al concetto di strada parlando di Milano, che è la mia città. Quindi, per la seconda stagione della serie, nella quale avevano bisogno di una voce che narrasse alcune vecchie leggende della criminalità della città, hanno pensato a me, e io sono stato felicissimo, anche perché questo Italica Noir, oltre ad essere molto bello da ascoltare, è anche favoloso da guardare, perché le animazioni sono certamente fra le più belle che io abbia mai visto in un contenuto del genere".
Grazie a te e al lavoro che fai, Italica Noir: I ferri del mestiere acquista una forte musicalità e chi ascolta non si lascia sfuggire nemmeno una parola...
Io lavoro anche alla radio e per parlare utilizzo il ritmo che mi serve per rappare, e quindi un ritmo molto veloce, molto cantilenato, perché sono abituato a fare così, e siccome è una cosa un po’ diversa dal solito, diciamo che "acchiappa". Mi sono trovato molto bene, perché alla fine è quello che faccio, e cioè mettermi le cuffie e parlare al microfono. Dovendo fare un tipo di musica che si basa quasi completamente sul parlato e ben poco sull'intonazione, parlare bene, e quindi scandire le parole, è davvero il minimo sindacale.
Sei del 1979, e quindi eri piccolo negli anni in cui si svolgono alcuni dei fatti che la miniserie racconta. Cosa ricordi dell'inizio degli anni '80, epoca in cui si conclude Italica Noir 2?
Io sono del 1979, quindi c'ero alla fine, ero molto piccolo, però c'erano i miei genitori. Io poi sono sempre stato affascinato da quell'epoca. Per i fatti miei ho letto tanto e guardato tanto sul periodo degli Anni di Piombo. Mio padre era un ex parlamentare, ha partecipato attivamente alla vita politica di quel periodo e io mi sono appassionato sia alla storia della politica che alla criminalità semplice degli Anni di Piombo, per cui è stato un periodo che ho voluto studiare in maniera più approfondita.
I banditi dell'epoca erano canaglie dal fascino irresistibile, avventurieri e inguaribili seduttori. Immagino quante lettere di donne innamorate abbiano ricevuto mentre erano in gattabuia, soprattutto Vallanzasca...
Vallanzasca poi si chiamava Il bel René perché era un bel ragazzo. A parte la carriera criminale, secondo me Vallanzasca ha goduto anche del fascino del bandito che si ribella all'istituzione. Non riuscivano a catturarlo, evadeva da tutti i penitenziari, era un uomo che giocava a sconfiggere lo stato, cosa che poi ha pagato cara con più di 40 anni di prigione. Penso che nessuno abbia fatto tanto carcere come Vallanzasca, e non ha ancora finito! L'ho sempre trovato un personaggio super affascinante, un ammaliatore e, naturalmente, uno che sapeva come piacere alle donne.
Milano dunque era il far West…
Esatto: Milano era il Far West, perché credo che allora, come oggi, Milano fosse il centro nevralgico dei soldi, per cui tutti si spostavano qua a fare affari: affari in bianco e affari in nero, ragione per la quale un criminale aveva molte più possibilità di fare il pieno rapinando una banca di Milano piuttosto che una banca di un qualsiasi paesino.
E la polizia? Come si comportava?
Come in ogni epoca ci sarà stato sicuramente qualcuno che fingeva di non vedere certe cose e qualcuno che lottava. Quello che ho capito, studiando questi personaggi, è che c'è sempre una grande sfida con la polizia in quegli anni. Ci sono grandi inseguimenti, sparatorie, cioè le due parti erano fortemente contrapposte, ci si sparava, costantemente, cioè si metteva in conto che ci si sparava.
Ancora oggi Milano ha un'anima noir?
A Roma c’è sempre il sole. Milano è molto scura, somiglia, con tutte le dovute proporzioni, a New York: piove spesso, la gente ha meno voglia di fermarsi, sono tutti un po’ più estranei, per cui sicuramente, almeno rispetto a Roma, Milano è un luogo più cupo.
Il Noir in Festival si occupa di libri, fumetti, serie noir e film, quindi ti chiedo: ti piace il cinema noir?
Sono un grande appassionato di cinema. Il noir mi piace. Il noir è, per il mio gusto personale, spesso un po’ lento. Preferisco un mix di mistero e azione. Sono un grande amante del giallo, che ti costringe a indagare, a capire chi è stato. Per me questi sono aspetti fondamentali. Il Noir spesso si fonde con il poliziesco, però il mio genere preferito diciamo è il crime alla Martin Scorsese, e quindi alla Casinò o Quei bravi ragazzi, insomma quelle cose lì. Oppure mi appassionano i film incredibili in cui non si capisce niente fino alla fine, tipo I soliti sospetti e The Game.
Come nascono le parole delle tue canzoni?
Io dico sempre che ho un lato oscuro molto forte, come diceva anche Vallanzasca, per cui sono più bravo a raccontare le storie un po’ cupe. Un po’ le ho vissute io stesso e un po’ appartengono a gente che conosco. Ciò che scrivo è molto molto influenzato dalla realtà. Alla fine il rap è questo: scrivere quello che vedi e quello che succede a te e a coloro che sono intorno a te.
Quando hai capito che saresti diventato un rapper?
Casa mia è sempre stata una casa molto musicale, tutti hanno sempre ascoltato tantissimi dischi, molta musica bellissima. Mio padre suonava il basso e la chitarra, per cui io sono cresciuto in mezzo alla musica e ho sempre amato la musica pur non avendola mai studiata. Mi sono orientato verso il genere che faccio quando sono uscite le prime cose rap, che subito mi sono piaciute. Non so perché, ma non ho avuto mai difficoltà a scrivere. A scuola andavo male, però ero davvero bravo a scrivere e a descrivere. Prendevo sempre 10 nei temi e 2 in tutte le altre materie. Non ho mai bucato un tema in vita mia, per cui, forse, ho unito inconsciamente e istintivamente la mia passione per la musica e la mia passione per la scrittura. Quando ho sentito i rapper americani che raccontavano la loro quotidianità o le contraddizioni del loro paese, ho imparato l'inglese. L'ho imparato bene, perché volevo capire cosa dicevano. Non l'ho mai studiato: mi bastava guardare film in lingua originale e ascoltare dischi rap. Mi affascinava la loro capacità di essere aderenti alla realtà, arrivando quasi a sostituire quello che una volta era racconto del sociale, che ora è semplicemente il racconto della rivalsa, con tutti i pro e i contro che si porta dietro.
Hai anche un pubblico giovane. Come vedi i ragazzi di oggi?
Secondo me i ragazzi di adesso non sono più fragili di noi, è la nostra generazione che li vede così, perché la generazione precedente alla nostra considerava noi persone fragili, ed era convinta che, ascoltando, che so, Tupac, saremmo diventati tutti dei rapinatori e degli spacciatori. Noi invece siamo convinti che, ascoltando il trap, i giovani siano destinati a diventare tutti dei tossici, ma le cose non vanno così. C'è sempre una percentuale di gente che si scassa e una percentuale di gente che farà altro nella vita. Secondo me a un certo punto si diventa protettivi nei confronti delle generazioni più giovani, e quindi si comincia a pensare che noi capiamo ogni cosa mentre loro non capiscono niente. Per esempio io sono un ribelle, ma adesso che ho due figli mi preoccupo, però io ho abbastanza fiducia nei giovani e non credo che siano peggiori noi, mentre la musica, ammettiamolo, è decisamente peggiore, anche se ci sono dei trapper molto talentuosi. E comunque non è un problema di genere musicale, ma di musica, nel senso che una volta per fare musica dovevi avere la passione per la scrittura e per la musica, e poi studiare, anche da indipendente, e appassionarti a suonare uno strumento, oppure imparare a scrivere il rap e a produrre delle cose. Adesso tutti possono fare tutto da camera loro senza nemmeno uscire: ti scarichi una app con cui fai una base, scrivi delle cazzate, le metti su Youtube e i giochi sono fatti. Il risultato, insomma, è che tutti possono fare musica e quindi la percentuale di schifezza aumenta a dismisura, ma i bravi ci sono sempre…
Insomma i Led Zeppelin sono ancora una delle migliori band di sempre…
Eppure il padre di mio padre pensava che la loro fosse musica di merda perché trovava che fosse meglio Claudio Villa, quindi non lo so. Ovviamente non voglio mettere sullo stesso piano Lil Wyte e i Led Zeppelin: sono molto meglio i Led Zeppelin, però, magari fra qualche anno, il suo rap sarà considerato musica di qualità. Che ne possiamo sapere noi?