Bang Bang Baby: una serie piena di sfumature, con due donne e Milano protagoniste assolute
Né rivoluzionaria né una fregatura, quella targata Amazon Original di cui trovate in streaming su Prime Video le prime cinque puntate è una serie produttivamente impeccabile e con un buon valore artistico, capace di masticare e rielaborare le cose più interessanti del panorama contemporaneo, senza dimenticare di essere personale nella scrittura.
- Big Babol, amore e 'Ndrangheta: tutte le parole d'ordine della serie
- L'immagine non basta, ma non è mai sola
- Tre protagoniste: due donne e Milano
- Bang Bang Baby: il trailer ufficiale
Mi pare di capire, leggendo qui e lì, che per parlare di Bang Bang Baby si deve dire che o si tratta di un capolavoro rivoluzionario che ha aperto un nuovo capitolo nella storia della produzione seriale in Italia, o che è una roba furbetta, stucchevole, modaiola, derivativa.
La cosa non mi sorprende nemmeno più di tanto, considerato l'uso sconsiderato che viene fatto solitamente del proprio intelletto e del proprio giudizio, in un mondo oramai modellato sulle modalità binarie tipiche dell'era digitale, e di quella dei social in particolare, dove si salta da capolavoro a boiata pazzesca senza passare dal via (che pure, delle 20mila lire di un tempo, bisogno ci sarebbe, per molti).
Il punto è, mi pare, che forse su una cosa come Bang Bang Baby, che comunque ha la sua complessità e pure le sue criticità, la cosa migliore da fare sia esprimere un giudizio che, attraverso le sfumature, renda giustizia ai suoi pregi e agli sforzi produttivi di cui è figlio senza per questo vederla come il Messia delle serie italiane.
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Big Babol, amore e 'Ndrangheta: tutte le parole d'ordine della serie
Partiamo dall'inizio. Dall'inizio della serie, intendo.
La prima cosa che vediamo è un vecchio televisiore, piazzato sul ripiano di un bar, circondato da bottiglie di Rabarbaro Zucca. Nel televisore ci sono Rock Hudson e Dorothy Malone, in auto, in una scena di Come le foglie al vento. Lui dice a lei: "Non sprecare la tua vita ad aspettarmi". Lei risponde: "Ti aspetterò. Ti ho nel sangue. E ti sposerò".
L'inquadratura di allarga e vediamo che al bancone del bar c'è Alice, la protagonista della serie, che mangia pistacchi compulsivamente. Il film viene interrotto dalla pubblicità delle Big Babol, quella dove la ragazzina nel west spaventava i cattivoni facendo esplodere enormi palloni e lo speaker diceva "Spara, non si appiccica, si ricarica".
Fuori passa un'auto, una Fiat Ritmo. Elaborati movimenti di macchina per seguire Alice che segue l'auto, mentre fuori è buio, piove, le insegne al neon sparano colori saturi, e parte il primo monologo di Alice in voce fuori campo, quei monologhi che aprono e chiudono ogni episodio con frasi icastiche, tipo, in questo caso "L'amore è bastardo". E poi Alice sale in auto, e capiamo che sta entrando nella'ndrangheta da affiliata mentre fuori dall'auto la bambina della Big Babol soffia un pallone sempre più grande, che minaccia di ribaltare l'automobile con tutti quelli che ci sono dentro.
Ecco. In questi primi minuti di Bang Bang Baby c'è un po' tutto quello che c'è dentro tutta Bang Bang Baby: la convinzione che dentro lo schermo piccolo ci possa essere il cinema grande, o comunque immagini grandi; il gusto per la ricostruzione vintage di un'epoca portato al parossissimo, saturo come i colori dei neon; l'infanzia che si va a diluire nel mondo adulto, e quindi il racconto di formazione; la voglia di essere iperrealisti e surreali; una scrittura che strizza l'occhio allo spettatore e gli vuole regalare a tutti i costi frasi e momenti memorabili; la violenza e le armi, vere e nerissime, ma sempre pronte a essere stemperate dal rosa shocking di un pop portato avanti in maniera incessante a colpi di colori, oggetti, prodotti, canzoni, citazioni; il sangue come conseguenza della violenza ma soprattutto legame sentimentale, lì dove il sentimento è il motore di tutto (un motore ibrido, perché ci sono anche i soldi).
Se a questo aggiungiamo che, subito dopo Alice è in macchina con la mamma, e alla radio ascoltano della prima donna pilota in Alitalia, e che si parla di femminismo ed emancipazione, e che poi, dopo dopo ancora, dopo una citazione di una scena del Tempo delle mele, arriva la nonna di Alice, la signora Lina Barone, detta anche Nonna Eroina, che vuole essere "la prima femmina che si siede coi mammasantissima", il quadro è abbastanza completo. E le parole d'ordine tematiche di Bang Bang Baby, in queste righe, le abbiamo citate praticamente tutte.
L'immagine non basta, ma non è mai sola
La questione, insomma, parte principalmente dall'estetica, che è un'estetica che tradisce l'attenzione forte per i cosiddetti "valori produttivi" così come lo sforzo economico che sta dietro alla serie. E che è un'estetica che, mi è parso di capire, rappresenta un po' l'elemento che ha diviso il flusso delle opinioni in due: da un parte gli esegeti, dall'altra i detrattori.
Io penso che gli esegeti sbaglino a vedere in Bang Bang Baby qualcosa di rivoluzionario, e penso che in questa considerazione non c'entri nulla una posizione tutta soggettiva che mi fa sentire un po' troppo pesanti, a volte, le scelte di regia e di messa in scena. Perché parlare di rivoluzione, nel caso di Bang Bang Baby, sarebbe ingiusto nei confronti del Paolo Sorrentino di The Young Pope e di The New Pope; o del Niccolò Ammaniti di Anna, e perfino del Miracolo, tanto per fare due esempi facili e comprensibili.
Allo stesso tempo, però, penso che abbiano torto i detrattori che siccome vedono, giustamente, eco delle estetiche sorrentiniane, o di Nicolas Winding Refn o di altri ancora in quelle di questa serie, e giudicano il pop troppo smaccato, allora la trattano come qualcosa di inutilmente derivativo e di ruffiano nei confronti dello spettatore.
Io penso, alla fine della fiera, che se Bang Bang Baby non è una rivoluzione, è comunque un prodotto qualitativamente molto interessante, e appartenente di sicuro alla fascia alta della produzione italiana.
C'è del coraggio, e magari pure un pizzico di incoscienza che porta con sé qualche errore, nel proporre un'estetica così estrema e, pertanto, così criticabile, così facile da attaccare, così incline a stuccare il palato dello spettatore, ma che è anche estremamente consapevole del fatto che è stata messa in scena masticando, digerendo e rimescolando molto dell'immaginario visivo contemporaneo e anche vintage.
Ma quel che è stato fatto, in Bang Bang Baby, oltre a curarla come si deve dal punto di vista tecnico, quell'estetica, è di non lasciarla sola. Ci si è ricordati, insomma, che l'immagine, per quanto importante, non è autosufficiente. Mai (o quasi). E quindi, l'immagine di Bang Bang Baby è sempre accompagnata dalla parola. Che è la parola scritta della sceneggiatura, ovviamente, capace anche di giocare con la verosimiglianza in maniera scanzonata e quindi credibile, ma anche la parola parlata da un cast messo insieme con grande intelligenza, apertura mentale e più di un pizzico di sgamata furbizia.
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Tre protagoniste: due donne e Milano
Tre, alla fine della fiera, sono le protagoniste di Bang Bang Baby.
La prima è Alice, e in Arianna Becheroni i realizzatori della serie hanno trovato una giovane attrice che magari non ha ancora finito di farsi, ma che non ha affatto le spalle strette e di certo non ha paura di tirare i calci di rigore, e che anzi affronta tutto quello che il suo personaggio deve affrontare con una spavalderia che tradisce un carisma non comune.
La seconda è nonna Lina, ovvero Dora Romano, quell'attrice veterana che nel giro di una manciata di mesi ha messo in scena due personaggi che rimangono impressi a fuoco nelle retine e dell'immaginario dello spettatore: la cattivissima signora Gentile di È stata la mano di Dio (Sorrentino, ancora, sempre) e appunto questa Guendalina Barone, donna di spessore narrativo shakespeariano e complessità psicologica novecentesca, per la quale ti viene subito da fare il tifo, se non altro per paura delle ritorsioni, specie se come a me ti piace il miele.
La terza, infine, è Milano. Milano, che poi è, anche nell'incontro stilizzatissimo tra Nord industriale e sud rurale, tra modernità commerciale e tradizione ancestrale, sineddoche dell'Italia tutta e delle sue mille contraddizioni, che erano certe nel 1986 e che tutto sommato son rimaste le stesse ancora oggi.
La Milano da bere, fatta di modelle e prostitute, quella dei paninari coi Moncler e le Timberland, quella di Berlusconi, il Berlusconi delle tv private e del Milan comprato proprio nell'86, una Milano tutta neon e cocaina, carrierismo e corruzione (qui il corrotto non è socialista, ma l'esponente di un fantomatico partito ecologista che secondo me assomiglia un po' a un giornalista musicale simbolo degli anni Ottanta come Ivano G. Casamonti, forse qualcuno se lo ricorderà).
Bastano, queste tre protagoniste, a rendere Bang Bang Baby qualcosa di godibile. Bastano, perlomeno a me. E poi certo, ci sono le ingenuità, gli occhiolini troppo insistiti, le stilizzazioni eccessive, le esagerazioni grottesche. Ma sopra le righe, Bang Bang Baby, non ci va mica troppe volte. E quando non stona, quanto si mantiene dentro la sua partitura, che pure ha il suo stile che non per forza piacerà a tutti, è intrigante, densa, coinvolgente.
Magari non è originalissima, quello no, ma quante delusioni ci hanno dato, a volte, quelli che vogliono fare gli originali a tutti i costi?
Ah: ruffiana o meno, la colonna sonora composta da brani dagli Ottanta in giù è irresistibile. Quelli di Prime Video lo sanno, e hanno pure messo su Amazon Music e su Spotity una playlist da leccarsi i baffi.
Bang Bang Baby: il trailer ufficiale
Credits foto: ©️Prime Video & Amazon Studios, photo by Andrea Pirrello