Un giorno di ordinaria follia: la recensione del film
Michael Douglas in una delle sue interpretazioni più note e acclamate, in un film che catturava il disagio profondo degli anni Novanta, e le aberrazioni che avrebbe creato.
Gli anni Ottanta. L’edonismo sfrenato, il culto dell’apparenza, l’emergere dell’economia finanziaria, con gli yuppies, le Wall Street e gli American Psycho. E poi i Novanta, con la marea dell’ottimismo che calava rapidamente, lasciando in bella evidenza i relitti, le carcasse, l’immondizia che era stata prodotta dal decennio precedente. L’inizio dell’apertura di quella forbice di diseguaglianza sociale che oggi è spaventosamente spalancata, come le fauci di uno squalo pronte a divorare tutto e tutti.
Come sempre è stato, da allora fino a oggi la storia si è srotolata con estrema coerenza, e tutto quello che viviamo oggi è una diretta conseguenza di quello che è stato fatto e di quello che non è stato fatto nei decenni precedenti. E siccome le cose non fatte, da certi punti di vista, sono più di quelle fatte, non appare così strano che un film come Un giorno di ordinaria follia, datato 1993, risuoni ancora così attuale nel 2020.
C’è un filo rosso che lega l’emergere del grunge, Fa’ la cosa giusta di Spike Lee, "American Psycho" di Bret Easton Ellis e questo film di Joel Schumacher interpretato da Michael Douglas (bravo, bravissimo, bis). Un filo rosso che racconta la malattia del sistema finanziario, il suo far vittime; racconta il dolore, lo smarrimento, la rabbia, la solitudine e la povertà, e le conseguenti tensioni sociali, e razziali.
Ognuno a modo loro, i film di Lee e Schumacher, il romanzo di Ellis e la musica della scena di Seattle resa celebre da Nirvana, Pearl Jam, Alice in Chains e compagnia, raccontano tutti la stessa cosa, sfumature dello stesso disagio che si stava impadronendo sottopelle (ma nemmeno troppo) della società americana prima e di quella globale poi, nel corso di un decennio che verrà lugubremente chiuso, nel 1999, dalla strage di Columbine, quella cui Gus Van Sant dedicherà il successivo Elephant (prima di rielaborare a suo modo, guarda un po’, la figura di Kurt Cobain in Last Days).
Nel caso di Un giorno di ordinaria follia, con tutta evidenza, il fuoco - fin troppo, secondo diversi osservatori, soprattutto americani - è sulla crisi della classe media, che iniziava giù allora a vedersi mancare la terra sotto i piedi, crollare i suoi riferimenti. Una classe media incarnata dagli occhiali anni Cinquanta, dalla camica a maniche corte e dalla cravatta del personaggio di Douglas, William Foster, un tempo ingegnere al servizio di una società che produceva missili per la Difesa statunitense (la targa della sua auto: D-Fense), diventato obsoleto, probabilmente col finire della Guerra Fredda, e che quindi ha perso anche il lavoro, dopo aver perso moglie e figlia che non lo vogliono più vedere.
Le motivazioni di Bob son fin troppo ovvie; le pressioni che hanno fatto saltare le sue valvole fin troppo spiegate, in un film che non nasconde a tratti di provare, con calcolata ambiguità morale, un pizzico di empatia di troppo per questo personaggio, e che chiede implicitamente allo spettatore di fare lo stesso.
Eppure, è innegabile che la sparizione della classe media è un problema strutturale di enorme portata per ogni società occidentale contemporanea. E che nelle reazioni di Bill lo sceneggiatore Ebbe Roe Smith e Schumacher siano stati in grado di cogliere e anticipare le pulsioni fasciste, violente, distruttive delle nuove destre dei nostri giorni, e perfino le azioni di folli terroristi che, declinando quella rabbia e quel fascismo lì secondo nuove coordinate adeguate alla società multiculturale che in quegli anni era appena allo stato embrionale, hanno messo bandiere di religione (cristiana) sui loro deliri sanguinari.
Come in Fa’ la cosa giusta, il caldo asfissiante e una banale discussione con un negoziante di etnia diversa da quella del protagonista sono le scintille che fanno innescare una reazione incendio che non potrà che avere un esito drammatico e amarissimo per chiunque continui a inseguire un ideale democratico e progressista.
E però, il punto di non ritorno arriva quando Bob si trova a confronto con la versione estrema di sé stesso (ovvero col negoziante nazista), con lo specchio oscuro che gli mostra quello che potrebbe diventare allagando le sue ossessioni e sfogando le sue frustrazioni su un orizzonte più vasto di quello familiare e intimista che invece lo guida.
Di fronte alla mutazione compiuta, Bob è talmente sconvolto da quello che vede nell’abisso di sé stesso da rifiutarlo uccidendolo, e così facendo dando paradossalmente inizio a una trasformazione che chiederà pietosamente venga interrotta, su un molo di Venice, dall’anziano e comprensivo poliziotto interpretato da Robert Duvall.
Al netto dei suoi difetti, di una eccessiva semplificazione e dello schematismo del discorso che porta avanti che però è anche funzionale alla sua immediata comprensione, e del modo vagamente ruffiano con cui alterna i toni del thriller, della tragedia e perfino del comico, Un giorno di ordinaria follia non è solo un film che è stato sinistramente capace di cogliere un sentimento allora ancor relativamente sommerso e di anticipare tragedie a venire, ma di grande efficacia, specie nella prima parte, nel raccontare il senso di disagio, oppressione, smarrimento e disgusto del suo protagonista.
Un protagonista che è sì ossessionato dal rivedere moglie e figlia, ma che, non dimentichiamolo, inizia a esplodere quando un negoziante “che non ha nemmeno avuto la cortesia di imparare la sua lingua” gli nega un piccolo favore, e gli chiede troppi soldi per una bibita; che si scaglia contro teppisti perché non lo lasciano camminare libero; che vede nella villa che un chirurgo plastico, e non lui, si può permettere, il segno del suo fallimento e dell’ingiustizia di un sistema economico e sociale.
Tutto questo non giustifica la sua follia, certo, né tantomeno le sue azioni. Ma è perlomeno una spiegazione del suo crollo: il crollo evocato nel titolo orginale del film, Falling Down.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival