The Greatest Showman: recensione del musical sulla vita di P.T. Barnum con Hugh Jackman
Un po' Moulin Rouge!, un po' musical più tradizionale, un po' spot pubblicitario a fin di bene.
A scegliere come regista l'esordiente Michael Gracey, è stato Hugh Jackman, che si è cucito sartorialmente addosso un film suo più che di chiunque altro, un film nato per dare libero sfogo alla sua voglia di mettere da parte le coreografie di lotta di Wolverine, e cantare e danzare in maniera più libera e gioiosa.
Gracey ha detto che non voleva lui, e non voleva Jackman, fare un "juke box musical" alla Moulin Rouge!: e però qualcosa del film di Baz Luhrmann, in The Greatest Showman, c'è. Vuoi per i costumi, vuoi per l'energia, vuoi perché si tratta di due periodi storici tutto sommato vicini, vuoi perché in almeno alcuni dei numeri musicali di questo si respira un po' di quell'aria trasgressiva e sensorialmente aggressiva.
Certo, The Greatest Showman non è Moulin Rouge, Gracey non è Luhrmann (perlomeno non quel Luhrmann lì), ma la voglia di raccontare attraverso immagini, musica e ballo qualcosa di grande e di spettacolare, di larger than life, di dare voce a chi canta - e razzola - fuori dal coro, è quella lì. E Keala Settle, interprete della donna barbuta, ha la presenza scenica e vocale giusta per metterla in scena: in numeri come "This is Me", certo, ma non solo.
C'è l'amore, e c'è l'arte, in The Greatest Showman. Che poi oddio, l'arte: c'è lo show businnes, quella cosa che, in uno dei dialoghi che non son certo il punto forte del film, il Barnum di Jackman dice di "aver appena inventato."
C'è, appunto, un personaggio che sogna e che fa, che deve mettere d'accordo il lavoro con la famiglia, l'ambizione con l'amore, la scalata sociale con i valori "veri" della vita, quelli da Amaro Montenegro.
Un personaggio che non esita di fronte a nulla (o quasi), che per arrivare al successo sfrutta diversità e deformità ottenendo così anche il risultato (nel film, e solo lì) di dare nuova dignità a tutti quelli che un tempo venivano chiamati freaks, e che sono chiaramente metafora di tutte le diversità possibili e immaginabili oggi: da quelle razziali a quelle sessuali e di genere raccolte sotto l'acronimo LGBT, passando per ogni forma di handicap.
In Barnum, in qualche modo, si sintetizzano quindi ansie e contraddizioni che ci appaiono molto vicine, che parlano a molte persone che vivono un mondo magari più complesso ma tutto sommato analogo alla New York di metà Ottocento. Contraddizioni che magari rimangono irrisolte, o che si sciolgono con semplicità un po' ingenua perfino per un musical.
Poi certo, temi come quelli della tolleranza e dell'accettazione fa sempre bene tirarli in ballo, e pure gli altri non guastano, ma è nella sua componente spettacolare che The Greatest Showman trova le sue ragioni e la sua identità. Magari anche contraddittorie, proprio come è per il personaggio che racconta.
Perché all'anima irriverente figlia, appunto, di Moulin Rouge e della sua rivoluzione, The Greatest Showman affianca anche influenze più tradizionali: ed è lì che la mano di Gracey, che viene dalla pubblicità, e che è quindi ancora primariamente un formalista, incontra limiti e rigidità.
Lì, e quando vuole giocare con il lato intimo e interiore dei personaggi, con numeri melensi e deludenti come quelli che vedono protagonisti Jackson e Michelle Williams (clamoroso il miscasting dell'attrice americana nei panni della moglie di Barnum, mentre perfetta, e seduttiva, è Rebecca Ferguson nel ruolo di Jenny Lind) o Zac Efron, sempre troppo bambolotto, e la più dinamica Zendaya.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival