Ogni tuo respiro: recensione del film di Andy Serkis con Andrew Garfield
La vera storia di Robin Cavendish viene raccontata con rispetto e trasmette un messaggio importante.
Fin dal principio, o meglio fin dal principio della poliomielite contratta nella crudele Africa che strappò a Karen Blixen l'amato Denys Finch-Hatton e a Kuki Gallmann figlio e marito, Ogni tuo respiro si è proposto di obbedire a un imperativo categorico: non essere un film su un malato terminale, il che equivaleva a rinunciare alla manipolazione emotiva dello spettatore, alla santificazione del morituro e alla compiaciuta cronaca di un lento consumarsi di un corpo. Che l'impegno sia stato mantenuto in pieno ne è prova, tanto per cominciare, l'omogeneità stilistica del primo lungometraggio in uscita del re del motion-capture Andy Serkis, che durante la lunga post-produzione di The Jungle Book ha dedicato sette settimane della sua vita dietro alla macchina da presa a dare forma, carne ed ossa al progetto del caro amico e co-fondatore dell’Imaginarium Productions Jonathan Cavendish, che nel cassetto custodiva una storia vera da trasformare in un copione cinematografico: la storia di suo padre, broker del tè che aveva dalla sua bellezza, fiuto negli affari, una splendida moglie e un figlio in arrivo e che, in un battibaleno, si ritrovò paralizzato dal collo in giù con un respiratore attaccato alla trachea e una prospettiva di vita di poche settimane.
Sappiamo che per il regista della seconda unità delle trilogie di Peter Jackson tratte da Tolkien questa vicenda appariva come una benefica pausa dai blockbuster, benefica e anche terapeutica, vista la sclerosi multipla di cui soffriva e soffre ancora sua sorella. E poi era per lui un ritorno a casa, nel senso di un recupero di quello humour misto ad eccentricità che sono tratti costitutivi della "gente d'Inghilterra" e dell'upper-class britannica degli anni 60 e 70 alla quale Robin Cavendish apparteneva e il cui ritratto è ciò che, in fondo, rende Ogni tuo respiro unico e originale. Ma nel paese in cui il personaggio interpretato da Andrew Garfield abitava, davvero si facevano gli sberleffi alle piccole e grandi tragedie dell'esistenza, soprattutto se si era circondati da affettuosi fratelli gemelli e da un amico come Teddy Hall capace di costruire una sedia a rotelle con respiratore incorporato. E davvero si poteva essere bohemien e autenticamente felici, e sorridenti come gli uomini e le donne di una vecchia foto di famiglia color seppia a cui Serkis sembra aver pensato quando ha immaginato la sua "mise en scene". I colori del suo film sono più accesi di un antico scatto, ma la luce sempre calda, che di nuovo rimanda all'intenzione di non insistere sulla sofferenza attraverso un look metallico e glaciale, sta ad indicare la ferrea volontà di creare un’atmosfera un po' da favola, un piccolo apologo morale sulla resilienza in cui però alla fine il cattivo arriva ed è un cattivo che non si presenta armato di falce ma anticipato da una serie di emorragie che Cesar/Gollum non ha paura a mostrare. Ed è giusto che sia così.
Ciò che invece la sceneggiatura di William Nicholson non fa vedere, ed è un peccato, sono i tormenti interiori di Robin Cavendish e soprattutto di sua moglie Diane, che non appare mai turbata dalla fatica dell'accudimento quotidiano di un malato né dall'idea di dover rinunciare per sempre a qualsiasi forma di intimità. Non soffre come la Jane Wilde Hawking de La teoria del tutto o come la Gerda Wegener di The Danish Girl la solare signora dai capelli un po' alla Tamara de Lempicka a cui presta il volto Claire Foy, e ciò la fa restare in superficie, la priva di un pizzico di umanità, così come toglie spessore allo stesso Robin. Ma questo è il ricordo che John Cavendish ha conservato dei suoi genitori e il film lo rispetta, insistendo piuttosto sulla battaglia di Robin Cavendish a favore dei diritti dei disabili gravi e su un messaggio che, proprio perché lanciato da un uomo conosciuto così bene da chi ha finanziato il film e così profondamente amato, non suona mai come finto o sdolcinato. Il messaggio è: godetevi il tempo che avete a disposizione, appoggiatevi alle persone che vi stanno intorno e riconoscetene il valore.
Forse un simile invito all’amore con la "A" maiuscola e ad entrare in armonia con il cosmo sanno troppo di feel good movie e forse la mancata rappresentazione della vita interiore di Cavendish non dà respiro al film, ma c’è un elemento che lo rende importante e quasi rivoluzionario, soprattutto per il pubblico di un paese come il nostro dove l’eutanasia è vista come il peggiore dei mali. Non è un segreto che l'uomo che visse 36 anni attaccato a una macchina alla fine si fece staccare la spina, atterrito dalla prospettiva di un epilogo doloroso e raccapricciante. Amava la vita il bel ragazzo che giocava bene a cricket e che riuscì a crescere un figlio senza mai tenerlo in braccio o per mano, ma voleva che fosse una vita dignitosa, desiderio che troppe persone oggi ancora non possono esaudire. E' ammirevole che un film senza pretese da cinema d’autore ce lo ricordi, e questo, insieme all'attendibilità del racconto, ci fa guardare Ogni tuo respiro da una prospettiva diversa, perdonandogli le ingenuità che un critico più feroce o un po' disattento gli ascriverebbe senza pietà.
- Giornalista specializzata in interviste
- Appassionata di cinema italiano e commedie sentimentali