Monkey Man: la recensione dell'action movie di e con Dev Patel

03 aprile 2024
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L'attore inglese di origine indiana esordisce dietro la macchina da presa con un action furente e violento, che mescola influenze culturali e cinematografiche orientali e occidentali, e parlando anche di politica. La recensione di Monkey Man di Federico Gironi.

Monkey Man: la recensione dell'action movie di e con Dev Patel

Dice Dev Patel - che questo progetto l’ha inseguito con testardaggine per quasi dieci anni - che Monkey Man è stato prima di tutto un modo per ritrovare le sue radici culturali, e l’orgoglio del suo essere indiano. In effetti, proprio come il suo interprete e regista, e autore del soggetto e co-sceneggiatore, uno dei tratti distintivi del film è proprio il suo essere a cavallo tra due mondi e due culture, prima di tutto cinematografiche.
Certo, qui c’è l’India, presentissima nelle gravissime sperequazioni di una società dove la distanza tra poverissimi e ricchissimi è siderale, nelle sue tradizioni, nelle sue religioni, nella sua politica e nella sua corruzione. Ma c’è anche molto Occidente nel modo in cui tutto questo è raccontato. E sì, John Wick è un modello, una chiara ispirazione. Vuoi per il look del protagonista, vuoi per lo stile delle lotte e degli scontri, vuoi perché a un certo punto è tirato in ballo a chiare lettere, in una battuta molto meta- che forse poteva essere evitata ma che, comunque, è una delle tante punteggiature ironiche che Patel ha voluto in un film molto cupo, e molto violento. Ma c'è anche dell'altro.

Come in John Wick, ma anche come nel 99% delle storie action da Park Chan-wook a questa parte, movente e motore dell’azione del protagonista senza nome di Monkey Man è la vendetta. Vendetta contro i ricchi e corrotti che hanno raso al suolo il suo villaggio, e soprattutto barbaramente ucciso sua madre.
Curioso: in questa premessa, e in alcune cose dei tanti flashback che, inframmezzando la storia al presente, la raccontano allo spettatore, si riscontrano alcune somiglianze con l’incipit di RRR, il super blockbuster indiano che, complice la distribuzione di Netflix, ha fatto conoscere le potenzialità del cinema action del subcontinente al vasto pubblico occidentale.
Le somiglianze tra i due film, però, si fermano qui, e non è detto che ciò sia necessariamente un bene, soprattutto sul piano stilistico.

Manca infatti, in Monkey Man, il respiro e la fiducia nell’immaginario del cinema, nella potenza delle immagini e della loro grandiosità spettacolare che aveva, in maniera quasi dissennata, S. S. Rajamouli. Qui è tutto molto più nervoso, claustrofobico, involuto. Uno stile vicino a quello dell'action hollywoodiano di oggi, certo, ma assai più confuso, ruvido. Stilizzato, sì, ma fino a un certo punto. Più istintuale e rabbioso. Quasi un John Wick che fosse passato attraverso lo sguardo e l’estetica di Anurag Kashyap, per citare un regista indiano fondamentale (più il Kashyap di Kennedy che quello di Ugly, purtroppo, ma tant’è), recuperando anche certo cinema anni Novanta di Jean-Claude Van Damme.

Lì dove non arriva con la testa e con la tecnica, Patel - che pure non ha evidentemente dimenticato l’esperienza di The Millionaire di Danny Boyle, il film che ne lanciò la carriera - sopperisce con la pancia e con l’inventiva, specie per quanto riguarda le scene di azione, che magari a tratti saranno pure troppo frastagliate e nebulose per mascherare delle mancanze, ma che compensano con una radicalità fatta di carne e sangue che è lontanissima dallo stile dei film con Keanu Reeves (ma che in qualche modo somiglia al recente Silent Night di John Woo, da cui Patel ha preso il DOP,  Sharone Meir), e con una creatività nell’uso del corpo e delle armi che darà la giusta soddisfazione agli appassionati del genere.

Forse anche lui un po’ fuori fuoco, ma comunque interessante, il discorso che Patel fa da un punto di vista politico, riallacciandosi in qualche modo ai primissimi film di Bruce Lee che lui stesso ha citato come fonte d’ispirazione cinefila e che ha voluto omaggiare. Perché, la vendetta raccontata in Monkey Man è personale, ma diventa presto anche collettiva: come Lee all’inizio della sua carriera, anche qui il personaggio di Patel diventa una specie di antieroe che con la sua lotta porta avanti (anche) le istanze dei diseredati, degli sfruttati, degli ultimi della società: che si tratti di piccoli scagnozzi umiliati dai gangster di riferimento, di prostitute che hanno le sue stesse origini o di una comunità di intersessuali che avrà un ruolo non di secondo piano nel finale del film.

E quindi sì, quelli contro cui combatte, Monkey Man, sono i ricchi e i corrotti, ma anche coloro i quali propagandano politiche di odio, sopraffazione e sovranismo, e quanti usano la religione e la cultura indiane per abbindolare le masse, sfruttarle, fare sempre e comunque i propri interessi. Anche in questo caso, pare proprio di poter dire che Monkey Man sta perfettamente a cavallo tra due mondi e due culture, e riesce a parlare a entrambe, e di entrambe.



  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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