Silent Night - Il silenzio della vendetta: la recensione del nuovo film di John Woo

29 novembre 2023
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Il grande regista cinese torna al cinema e a Hollywood con un film tutto teorico, nel complesso minore nella sua filmografia ma in qualche modo maggiore nel panorama action contemporaneo. La recensione di Silent Night di Federico Gironi.

Silent Night - Il silenzio della vendetta: la recensione del nuovo film di John Woo

Violenza e sentimento. Azione e melodramma. Proiettili e lacrime.
Nel cinema di John Woo, le cose sono sempre andate di pari passo. Intrecciate, abbracciate. Senza bisogno di troppe parole, lasciando spesso che i corpi, i gesti, le azioni, fossero più importanti dei costrutti della lingua.
Logico quindi che, a 77 anni John Woo torni a Hollywood e al cinema con Silent Night, un film dove il protagonista la lingua non ce l’ha proprio.
Oddio, non è che non abbia la lingua in quanto muscolo: non ha la lingua nel senso che non parla, perché gli hanno sparato in gola - addio corde vocali, quelle sì - e è vivo per miracolo.
Anche se forse lui avrebbe preferito di no.
Gli hanno sparato in gola perché ha cercato di fermare dei membri di una gang di latinos che terrorizza la città del Texas dove vive, e che poco prima, nel corso di una sparatoria, hanno colpito il figlioletto con un proiettile vagante.
Lui è vivo per miracolo, il figlio no.
E nel sottotitolo di Silent Night, che recita “Il silenzio della vendetta”, c’è tutto quel che poi serve per capire la trama del film.

Ora.
Il fatto è che Silent Night è un film strano.
Uno di quelli in cui Woo pare sbagliare un sacco di cose, a partire dalla scelta di Joel Kinnaman come protagonista, uno che non è proprio granché espressivo quando parla, figuriamoci quando fa il muto. Ma d’altronde, in America, Woo ha sempre fatto così, lavorando con quello e con quelli che gli venivano messi a disposizione.
Uno di quei film, Silent Night, in cui il sentimentalismo lirico di Woo - qui portato al parossismo tanto quanto la violenza - rischia di andare fuori giri e di sfociare nel kitsch, come in una certa scena finale. Dove le coreografie d’azione, nell’epoca di quel John Wick che senza John Woo non sarebbe mai esistito, sono talmente studiate nella loro ruvida geometria da sembrare, a confronto, quasi sciatte.
Soprattutto, Silent Night è uno di quei film che sembrano fatti apposta per far gridare al capolavoro i più impallinati con la politica degli autori (quelli che, anche a ragione ritrovano in questo film un omaggio a uno dei maestri di Woo, Chang Cheh) e far storcere il naso a altri (che magari possono finalmente dire che Woo è bollito, ce lo siamo giocato, in fondo è un sopravvalutato).

La verità, se di verità possiamo parlare, non sta tanto nel mezzo, tra queste posizioni che potrebbero anche abbracciarsi come si abbracciano la violenza e il sentimento, quanto nella realizzazione che tutto quel che di teorico possiamo dire sulla poetica e sull’estetica di John Woo che qui si sono sublimate, che sono diventate tensione ideale, quintessenziale e astratta, è valido nella misura in cui riconosciamo che Silent Night è un film di John Woo, con tutti i suoi pregi e il suo talento, ma che è anche un film a suo modo minore, di John Woo.
Minore di John Woo ma, allo stesso tempo, in qualche modo maggiore nel panorama del cinema d’azione contemporaneo (John Wick, appunto, e derivati), che questo indiscutibile maestro - altro che sopravvalutato - prende e riporta a una essenzialità di pensiero e di movimento che sfronda e abolisce, con eleganza marziale, ogni inutile barocchismo e ogni pesante sovrastruttura, per lasciare spazio, seppur spesso interstiziale, al melodramma.

Per spiegare.
Il protagonista di questo film, non è un killer letale e temuto che torna in azione per vendetta. Ferma restando la vendetta, il protagonista di questo film è un americano medio che per primo, a dispetto di un anno di intensa preparazione fisica, balistica e mentale, è a disagio e ha una certa qual rigida goffagine nel momento di entrare - appunto - in azione.
La sua motivazione è tale e tanta, inoltre, da annullare ogni possibile contorno familiare, sentimentale, amicale, e se qualcosa rimane (o emerge) e perché le esigenze della produzione sono sempre quelle che sono.
E la sua motivazione, il cerchio si chiude, è sentimento assoluto e parossistico, che non ha alcun timore.
Né della morte, né del ridicolo.
Come il film che lo racconta, come il suo regista.



  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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