Maleficent - La recensione del film Disney con Angelina Jolie
La Disney rivisita La Bella addormentata nel bosco
Fatata protettrice della Brughiera, la piccola Malefica è diventata amica di un umano, il giovane Stefano. Purtroppo quest'ultimo, crescendo, decide di farsi acclamare re, sconfiggendo quella che per tutti è una pericolosa strega: con l'inganno taglia le ali di Malefica, che mediterà la vendetta sulla piccola figlia del traditore, Aurora.
La storia del cinema disneyano è retta dalle donne, sin dall'epoca di Biancaneve. A partire dal cosiddetto Rinascimento Disney (fine anni Ottanta), la centralità della figura femminile si è ammantata di un orgoglio d'emancipazione, generando figure come Belle di La Bella e la Bestia, non a caso sceneggiato dalla stessa Linda Woolverton che firma anche il copione di questo Maleficent, diretto dall'esordiente Robert Stromberg, ex-scenografo.
Il film nasce dalla stessa tendenza commerciale che ha generato altre riletture, tipo Alice in Wonderland di Tim Burton e Il grande e potente Oz di Sam Raimi, una fortunata e l'altra meno: si tratti di sequel, prequel o what if, tali opere azzardano un punto di vista contemporaneo su miti comprovati. Maleficent ha un DNA più articolato, tra questa tendenza commerciale e il perseguimento di temi della Disney moderna, che come si è visto in Frozen ama ribaltare gli stereotipi fiabeschi per allargare lo sguardo sugli affetti.
Malefica, scottata da un'esperienza d'amore fatta di disillusione e tradimento, semina il male non per principio, quanto per ripicca. Il rischio di tale degenerazione è la compromissione del sogno e del candore rappresentati da Aurora, la figlia che non potrà mai avere. Qui Maleficent è molto disneyano, o "disneyano nuovo corso", se preferite: l'innocenza dev'essere sempre preservata, e la novità semmai è che a difenderla non ci sono più superati principi azzurri, ma imperfette sorelle (Frozen) o madri adottive (Maleficent). La magia passa ancora da sostanza del racconto a metafora.
Se c'è quindi un percorso poetico di fondo sensato, il risultato tuttavia lascia a desiderare. In un Frozen la novità della storia è un veicolo migliore per questi temi, mentre in Maleficent l'omaggio/sfida al capolavoro di riferimento La bella addormentata nel bosco del 1959 si trasforma in un'interferenza scomoda.
In una fiaba il nome "Malefica" è un nomen omen, cioè un nome che contiene il ruolo del personaggio: cominciare il film con una "Malefica buona" non aiuta di certo gli scettici a porsi meglio di fronte alla lesa maestà di un culto. Non si capisce inoltre perché le tre fate o il principe siano caratterizzati come idioti completi, quasi si pensasse di compensare così la cupezza dell'insieme: è una strategia ingenua distante da quella di Frozen, meno gratuito nell'uso dei personaggi secondari.
Intorno ai due protagonisti tutto sommato centrati, Angelina Jolie e Sharlto Copley (la prima perfetta incarnazione del design originale dell'animatore Marc Davis), c'è purtroppo una messa in scena lontana dal carisma inimitabile del prototipo animato. In regia e design Maleficent sembra un qualsiasi blockbuster fantasy degli ultimi anni. Alcune idee sono apprezzabili, come le ali di Malefica, che per Davis doveva ricordare un pipistrello, altre imbarazzano, come la micidiale tuta in simil-latex nel finale o la versione in CGI della fatina Imelda Staunton (!).
L'impressione è che Maleficent poggiasse su intenzioni non disprezzabili, ma che la loro attuazione si sia persa in un copione e in una messa in scena troppo incerti, non all'altezza della delicata operazione.
- Giornalista specializzato in audiovisivi
- Autore di "La stirpe di Topolino"