Il libro della giungla: la recensione del remake Disney

13 aprile 2016
3.5 di 5
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Una sorpresa: un'espansione/omaggio che guarda a Kipling.

Il libro della giungla: la recensione del remake Disney

Quando suo padre viene ucciso dalla tigre Shere Khan, il piccolo umano Mowgli viene adottato dalla lupa Raksha. La sua presenza nella giungla, già ritenuta scomoda per il branco, diviene insostenibile quando Shere Khan minaccia ritorsioni a chiunque lo ospiti. La pantera Baghera decide di aiutarlo e di scortarlo fino al villaggio degli uomini; varie deviazioni sulla strada lo porteranno a conoscere l'orso perdigiorno Baloo e il re delle Scimmie.

Quando leggemmo di questo remake del Libro della giungla del 1967, uno dei più amati classici del canone animato Disney, annegammo nello scetticismo, quasi dispiacendoci per il guaio in cui il regista (altrove anche attore) Jon Favreau si era andato a cacciare: d'accordo, aveva bene affrontato Iron Man secondo i fan, ma Il libro della giungla è sul serio sacro. L'originale, diretto da Wolfgang Reitherman ma di fatto testamento artistico di Walt Disney, che morì prima di vederlo terminato, era la summa del conflitto su cui Walt aveva basato le sue opere più personali come Le avventure di Peter Pan e Mary Poppins: il contrasto tra la consapevolezza di dover crescere (Baghera) e la necessità della leggerezza per affrontare della vita (Baloo). Per Disney il materiale di Rudyard Kipling era una scusa, un pretesto per una riflessione morale ed esistenziale eterna, ancora oggi irresistibile.
Sorpresa. Jon Favreau e lo sceneggiatore Justin Marks sono usciti a testa alta dall'impresa improba di ripercorrere in live-action (poca) e CGI (tanta) il capolavoro di cinquant'anni fa. Come? Kipling non è più una scusa. Dando un colpo al cerchio e uno alla botte, Favreau infatti espande la storia del cartoon, rispettando la commessa della Disney di "rivendere" il marchio, cogliendo però allo stesso tempo l'occasione per riaprire il testo di partenza.

Centro di ogni differenza con la prima versione è Mowgli: lì dove nel film del '67 era un bambino piuttosto passivo, ingenuo, tenero e manipolabile, in questa incarnazione, ben interpretato con disinvoltura dal simpatico Neel Sethi, è una mente pensante. Idea corretta: in Kipling la natura ingegnosa ed evoluta dell'essere umano è un concetto fondamentale, in contrasto costante con l'immediatezza degli animali, che di volta in volta la temono, la sfruttano o l'ammirano. Nella nuova versione Baghera e Baloo infatti non sono balie, ma compagni in un romanzo di formazione, nel quale l'uso del fuoco ridiventa il simbolo di un potere umano che Mowgli incarna e che deve imparare a usare, nel rispetto di ciò che lo circonda. Sarà Mowgli a risolvere la situazione, in un finale che non vi sveliamo ma che non potrebbe essere più distante dall'originale. Uno sprone a fondere l'animalità dell'uomo con la sua psiche più avanzata.
Certo, Il libro della giungla di Favreau perde in dolcezza e grazia, le due qualità inimitabili del film di Reitherman, ma il regista evita le delusioni di Alice in Wonderland, Maleficent e Cenerentola, perché non è inibito da una propria riconoscibile autorialità (come Tim Burton o Kenneth Branagh), ma allo stesso tempo non è un regista improvvisato come lo scenografo Robert Stromberg. Consapevole di dover perdere le qualità di cui sopra, si rimbocca le maniche e cerca quello che nella prima versione era stato evitato: i messaggi di Kipling, l'avventura dinamica, la cupezza, la morte e persino lo scontro fisico concreto (niente paura, genitori: il discorso di fondo è etico e affascinante). Sostiene l'intento la Weta Digital con animazioni fotorealistiche: Il libro della giungla si presenta come uno dei pochi, rari, riusciti tentativi di donare favella a animali rappresentati come reali. Una chiave distante anni luce dal taglio interpretativo e caloroso del cartoon, ma molto coerente con il recupero della maggiore visceralità di Kipling.

Non è un caso se Il libro della giungla scivola proprio quando Favreau, per sincero omaggio o dovere commerciale, non riesce a fare a meno di citare due canzoni culto come "Lo stretto indispensabile" e "Voglio esser come te": stridono parecchio con il realismo di questa rappresentazione, sottolineando quanto l'estetica e la poetica dei due lungometraggi siano distanti. A dispetto di quest'unica magagna, a rendere Il libro della giungla la riproposta migliore di un classico Disney fino ad ora è l'aria che si respira tra i suoi alberi. Semplicemente, è un film che riesce ad avere un perché che vada al di là dell'evidente operazione commerciale.



  • Giornalista specializzato in audiovisivi
  • Autore di "La stirpe di Topolino"
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