Barry Seal - Una storia americana: la recensione del film con Tom Cruise
Autoironico e in splendida forma, l'attore fa l’antieroe in un film pop non nostalgico ma moderno.
Proviamo a chiudere gli occhi e a immaginare che Pete "Maverick" Mitchell - sì, proprio lui, il "pirata dell’aria" di Top Gun - abbia abbandonato i sogni di gloria per diventare un semplice pilota di linea. Immaginiamolo con qualche chilo in più, occhiali da sole leggermente diversi dagli iconici Ray Ban che nascondevano uno sguardo killer, e una famiglia da mantenere in Louisiana. Certo, siamo sempre negli anni Ottanta o giù di lì, e quindi il giochino potrebbe andare a carte quarantotto, ma, in tempi di narrazione non lineare, cosa importa?
Importa invece che fra il tenente che s’innamorava di Kelly McGillis sulle note di "Take my Breath Away" e il contrabbandiere furbastro che lavora contemporaneamente per la CIA, per se stesso e per il temibile cartello di Medellin c’è tutta la storia di Tom Cruise: ci sono l’ascesa, la caduta e la ripresa (nonostante La Mummia), di un grande attore hollywoodiano, di una star che - a cominciare dal personaggio di Les Grossman di Tropic Thunder e passando per lo Stace Jaxx di Rock of Ages e per l’Ethan Hunt degli ultimi Mission: Impossible - si è liberata di quel sorriso a 32 bianchissimi denti che era il suo abusato marchio di fabbrica e ha imparato a giocare con il proprio mito e a scherzarci su. Chapeau, Mr. "non mi servono controfigure", siamo con te.
Battute a parte, senza Tom che non gigioneggia più come in Jerry Maguire, che non scimmiotta Leonardo DiCaprio in The Wolf of Wall Street e che la coca non la sniffa ma la "indossa" (dopo che un pacco di polvere bianca gli è esploso addosso), Barry Seal non sarebbe così incisivo, energico e soprattutto così pop. Sarebbe, forse, l’ennesima biografia di una seducente canaglia invaghita del "vil denaro" nonché un altro ingresso, seppur da una porta laterale, nel mondo e nella megalomania del "patron" del narcotraffico colombiano Pablo Escobar. Sarebbe anche una riflessione un po’ sgangherata, e sempre asservita alle regole del character-movie, sull’America di Ronald Reagan, sulla droga che passava indomita il confine nonostante l’invito della Firts Lady a "dire semplicemente no", e sull’operato della CIA in Sudamerica e sui Contras nicaraguensi armati fino ai denti.
Un momento: Cruise o non Cruise, qual è veramente lo scopo del film? A Doug Liman interessa davvero narrare qualcosa di marcio, di assurdo e di sbagliato? L’umorismo di cui trabocca Barry Seal non nasconde una smorfia di disgusto che nasce dalla contemplazione di un paese più che imperfetto? Seal che perde un dente in un incidente potrebbe essere la bandiera a stelle e strisce mangiucchiata dal tarlo del capitalismo o bruciacchiata dal fuoco dell’ossessione anticomunista? E i chili di cocaina scaraventati già dall’aereo di Barry non starebbero significare il precipitare in caduta libera del sogno americano? Sì, sì, sì e sì, ma l'impressione è che, un po' più della denuncia, al regista interessi una sorta di esaltazione del suo antieroe al soldo di tutto e di tutti, esemplificata da uno stile flamboyant e da un ritmo davvero troppo frenetico. Barry che con le sue malefatte cambia il corso della storia è come un Forrest Gump che si muove in fast forward, che "ingolla" l’intera scatola di cioccolatini senza assaporarla. E Barry che si filma mentre narra la sua disavventura guardando nella sua videocamera (e quindi in macchina) è l’action-comedy fracassona che prevale sul realismo e sulla semplice ricostruzione dei fatti.
In un simile turbillon, ogni cosa sembra lecita per rendere la corsa emozionante e ammiccante - dal montaggio rapidissimo e incrociato al fermo-immagine, dai colori sgargianti a i toni grotteschi - ed è chiarissima l’intenzione del film di perdonare il suo protagonista e di renderlo sornionamente simpatico. Perché, in fin dei conti, B.S. è favoloso, e lo è perché è stato talmente sciocco da fare i nomi dei cattivi dicendo alla morte: "Piccina, vieni da me". Eppure, proprio la stupida fine del personaggio in qualche modo lo smonta e gli dà un che di fumettistico, giustificando l’iperbole e rendendo il film divertentissimo e magnetico, nonostante qualche momento di stanca e/o confusione dovuto all'affastellarsi di personaggi secondari malamente approfonditi.
Torniamo al giochetto di prima, quello di Maverick 20 anni dopo. Se funziona è perché Barry Seal, che pure celebra i favolosi Eighties, è il papà di Top Gun, nel senso che ha una sua modernità di linguaggio e non è mai nostalgico . E’ un film del qui e dell'ora ora: il qui e l’ora di Tom che continua a mettersi in discussione e di una storia vera che richiama l'attualità che non ha mai l’ambizione di farsi inchiesta giornalistica né agiografia adorante di un furfante.
- Giornalista specializzata in interviste
- Appassionata di cinema italiano e commedie sentimentali