Non c’è due senza tre: Jackie, Diana, Maria
Pablo Larraín e la sua trilogia sulle icone femminili spezzate. Tre donne che hanno segnato l’immaginario del Novecento. Tre icone pubbliche, osservate fino allo sfinimento, amate e imitate, ma mai davvero comprese.

- Jackie: la morte in diretta
- Spencer: la gabbia dorata
- Maria: la voce e il vuoto
- Tre ritratti, un’unica crepa
Con Maria (2024), Pablo Larraín chiude un cerchio iniziato con Jackie (2016) e continuato con Spencer (2021): tre ritratti intensi di donne che il mondo ha trasformato in icone, ma che lui restituisce alla loro verità più intima. Al centro di questa trilogia non ufficiale non c’è il potere, né la fama. C’è la fragilità che si nasconde dietro l’immagine perfetta, il dolore che scorre sotto la superficie del privilegio, la solitudine che si insinua anche quando tutti ti guardano.
Il fil rouge di questi tre film non è il potere, né la fama, ma la prigione dell’immagine. Tutte e tre le protagoniste vivono un conflitto tra ciò che sono e ciò che il mondo vuole che siano. Jackie deve essere la vedova perfetta, Diana la principessa del popolo, Maria la diva assoluta. Il punto di partenza è sempre lo stesso: il momento in cui la maschera si incrina.
Jackie: la morte in diretta
In Jackie, la first lady si aggira nella Casa Bianca nei giorni immediatamente successivi all’omicidio di JFK. È distrutta dal dolore, ma ogni suo gesto è misurato, ogni parola calcolata. Deve proteggere un’eredità, costruire una narrazione pubblica che renda giustizia al marito, ma, allo stesso tempo, anche a sé stessa. Natalie Portman restituisce una donna che recita anche quando piange, intrappolata nel ruolo della moglie del presidente anche dopo che tutto è finito. La morte privata diventa spettacolo pubblico e Jackie resta sola sul palco.
Spencer: la gabbia dorata
In Spencer, il Natale di Lady Diana a Sandringham è un thriller interiore. Larraín ci porta nella mente di una donna sull’orlo del collasso, mentre intorno a lei si muove una corte che la osserva come un animale esotico in gabbia. Kristen Stewart incarna una Diana che lotta per ritrovare un minimo di libertà. Anche lei vive un doppio ruolo: madre affettuosa e principessa triste, che tenta di disfarsi di un’identità imposta troppo presto. In una delle scene chiave, Diana si immagina nei panni di Anna Bolena, regina decapitata. Il messaggio è chiaro: essere moglie di un futuro re può costarti la testa.
Maria: la voce e il vuoto
Infine, con Maria, Larraín chiude il cerchio portandoci negli ultimi giorni di vita di Maria Callas. Una donna che ha fatto della voce e della presenza scenica la sua identità, ma che ora deve fare i conti con la perdita. Della voce, del corpo, dell’amore. Il film si muove tra realtà e allucinazione, mentre Maria parla con antidepressivi come fossero persone reali, e si confronta con chi la conosceva davvero: Bruna, la governante (Alba Rohrwacher) e Ferruccio, il domestico (Pierfrancesco Favino). Il suo nemico è il tempo: quello passato, che ha reso intoccabile la Divina e quello presente che non concede repliche.
Tre ritratti, un’unica crepa
Il fil rouge che lega queste tre donne è allora chiaro: sono tutte prigioniere del proprio mito. Vivono sotto i riflettori, ma si consumano nel buio. Larraín le osserva con sguardo compassionevole, senza mai cadere nella facile celebrazione. La sua regia si avvicina ai silenzi e alle crepe. La narrazione non segue mai i canoni classici della biografia, ma si concentra su un frammento, un momento critico, un punto di rottura. Ed è proprio in quel punto che le protagoniste diventano finalmente umane.
Non c’è catarsi, non c’è redenzione, non c’è rivincita. C’è solo una consapevolezza amara: la fama non salva, anzi distrugge. E chi viene idealizzato dal mondo, spesso finisce dimenticato da sé stesso.
Con questa trilogia, Pablo Larraín ha dato voce a tre donne che il mondo ha trasformato in simboli. E lo ha fatto smontando l’immagine per arrivare all’anima, con il coraggio di raccontare la fragilità come l’ultimo, vero atto di grandezza.