Butcher's Crossing: Nicolas Cage tra Ahab e Kurzt a caccia di bisonti nel vecchio West
Questo western diretto da Gabe Polski con anche Fred Hechinger, basato sul romanzo omonimo di John Edward Williams, è stato presentato alla Festa del Cinema di Roma nella sezione Grand Public.
In Butcher’s Crossing Nicolas Cage interpreta il ruolo di un cacciatore di bisonti che, nel west del 1870, è ossessionato, come Ahab, non da una balena bianca ma da una marea nera. Una marea di bufali scovati una volta in una valle isolata del Colorado. Bufali che vuole cacciare, trovati dei compagni di avventura, per ottenere il più grande quantitativo di pelli mai raccolto da qualcuno.
Cage, in Butcher’s Crossing, raggiunge la sua destinazione e lì diventa vittima della sua ossessione. Pelato (ovvero, per una volta, senza parrucchino) come il Kurtz di Brando, si passa nervosamente la mano sulla testa, che rade a secco.
Dati questi riferimenti, sarebbe facile immaginarlo in una delle sue celebri e amatissime interpretazioni allucinate e luciferine: e invece no. Rimane sempre calmo, per quanto uno come Cage possa essere calmo. Tra le righe, volendo.
Ecco. Mi pare che questa annotazione rispecchi anche il tono di questo film che segna l’esordio dell’apprezzato documentarista Gabe Polski, quello per esempio di Red Penguins, nel cinema di finzione. Perché quello di Polski è un western che flirta costantemente con l’allucinazione, con la morbosità, con le atmosfere opprimenti e l’astrazione, ma che mai ha la voglia (o forse il coraggio?) di abbracciare fino alle estreme conseguenze questa sua natura. Vedendolo, anche se non c’entra forse molto, pensavo a come un regista come Nicolas Winding Refn, il Refn di Valhalla Rising, soprattutto, avrebbe lavorato su certi temi e certe sensibilità.
C’è un Ahab, e c’è anche un Ismaele. O, se preferite, se c’è un Kurtz c’è anche un Willard.
È il personaggio di Fred Hechinger, giovane uomo che ha lasciato Harvard e una vita di tranquillità per andare a conoscere i confini del suo paese, il west, e che conoscerà anche quelli dell’umanità. Sua e degli altri.
Con questi due protagonisti, anche un anziano compare di Cage, e uno scuoiatore professionista dalla dubbia moralità.
Ma le relazioni personali, o gli scontro di personalità, in Butcher’s Crossing, non stanno al centro del racconto. Sono, al più, un utile contorno che riempie vuoti, silenzi, ripetizioni.
Al centro, in Butcher’s Crossing, c’è l’ossessione del personaggio di Cage. Un’ossessione che già sappiamo condurrà a una qualche forma di disastro.
E, ancora una volta, il disastro che non è tanto personale o psicologico, ma metaforico.
Perché il problema di Butcher’s Crossing, che è tratto da un romanzo omonimo del John Williams di “Stoner”, è che è un film a tesi. Una tesi che si disinteressa abbastanza clamorosamente dei personaggi ma che riguarda, in questi tempi di correttezza politica e di wokeness insistite, i disastri cui si va incontro per via del mercato (quello cui è difficile resistere, come cantavano i Baustelle) da un lato, e l’animalismo dall’altro.
Al termine di una spedizione di caccia durata assai più del previsto, e dai risvolti mortali e/o drammatici, i protagonisti scopriranno infatti che il prezzo delle pelli di bufalo è crollato. E che la strage di animali che hanno compiuto, devastante, è stata inutile.
In Butcher’s Crossing, girato nelle riserve dei Piedi Neri dove si cerca di ripopolare i branchi di bisonte americano, non mancano quindi i cartelli finali che raccontano le conseguenze nefaste che la caccia al bufalo, oggi “Mammifero Nazionale” degli Stati Uniti ha realmente avuto.
Per quello, però, c’è anche il National Geographic.