Beyond, in cerca dei propri limiti: intervista ad Alex Bellini dal Trento Film Festival
Un ritorno a distanza di otto anni dal ghiacciaio islandese Vatnajökull in cui aveva rischiato la morte. L'esploratore Alex Bellini ha raccontato la sua nuova avventura nel documentario Beyond, presentato al Trento Film Festival. Lo abbiamo incontrato.

Uno sguardo in camera, la barba coperta dal ghiaccio, con i suoi occhi chiari sempre in movimento che lo hanno reso uno degli esploratori più riconoscibili del nostro paese. Insieme alle tante avventure, che Alex Bellini ha affrontato e raccontato. Questa volta lo ha fatto con un documentario, Beyond, curato in prima persona, prodotto insieme alla moglie Francesca Urso, e presentato al Trento Film Festival.
Prende il via dal tentativo di rispondere alla domanda, “Perché esplorare?”, che lo ha portato nel gennaio 2025 a fare ritorno nei luoghi della missione sul ghiacciaio islandese Vatnajökull che lo aveva visto protagonista, rischiando la morte, otto anni prima. Lo abbiamo intervistato.
Che sensazione ha avuto a riaffacciarsi nel ghiacciaio islandese del Vatnajökull e che persona pensa di essere diventata in questi anni dopo quello che ha rischiato anche nel 2017?
Quell’esperienza nel 2017 mi ha portato la necessità di analizzare quello che era accaduto, quindi l'incidente, in cui io testardamente sono andato avanti, mentre il fotografo invece ha deciso di fermarsi. Una scelta che all'epoca avevo vissuto male, perché mi sembrava un un tradimento dell’accordo che c’era fra noi due. A distanza di anni l'analisi che ne è seguita mi ha permesso di guardare sotto una nuova lente la scelta, e in generale le scelte che le persone fanno di fronte a un bivio fra proseguire o tornare indietro. Ho messo meglio in luce il tornare indietro, per decenni associato al fallimento, alla resa. Maturando mi sono reso conto che alla fine va bene così, ognuno risponde a sé stesso, è giusto rispettare la scelta di chi ha deciso di non andare oltre. Parlando di temi importanti e molto attuali, è importane definire degli obiettivi da non superare. È la sfida di Icaro, quella di riconoscere con saggezza quando fermarsi prima di raggiungere il sole. Una tematica valida anche in contesti diversi, come quelli legati all’ambiente, al vivere sostenibile. L’essere umano moderno ha dei problemi legati ai limiti, l’intento di questa produzione è quello di fare un piccolo passo verso la comprensione di alcuni limiti che per sopravvivere bisogna rispettare.
È una questione che si intreccia con un dibattito attuale sul ruolo dell’uomo, sul superamento di una certa idea di maschio che deve per forza vincere, andare oltre, mentre nel documentario dimostra come la ricchezza dell'essere umano è anche essere fragile, talvolta fermarsi, avere dei limiti, riconoscere magari delle priorità nei confronti della famiglia.
Sono assolutamente d'accordo, tant'è che nella la mia storia di esploratore, nel 2008, mi sono confrontato con il bisogno di fermarsi. Mi riferisco a una spedizione attraverso l'oceano Pacifico, che interruppi a 100 km dall'arrivo di Sydney, in Australia. C'è però da dire un'altra cosa, che può essere in apparente contraddizione con tutto questo. La figura dell'esploratore è associata a un uomo che non ha paura di andare avanti, che testardamente, con tolleranza e con grande dedizione verso il suo sogno, va avanti nonostante tutto. Spero che le persone possano comprendere la complessità dell'essere umano, senza etichettarlo. Con Beyond, non solo volevamo restituire luce a chi decide di non andare oltre, ma anche vedere la vita non come una dicotomia tra vinti e vincitori, bianco e nero, andare avanti e tornare indietro. Posso continuare ad essere chi sono, pur accettando l'idea che attorno a me ci sono i limiti e talvolta devo rispondere con responsabilità alla chiamata di fermarmi. So che può essere in contraddizione, ma sono il primo che sta cercando di navigare nella complessità di un'etichetta, quella dell'esploratore impavido e pronto a tutto, in un'epoca in cui non ho più l'incoscienza del ventenne, ma continuo a essere un esploratore anche a 46 anni, e proprio la mia età mi impone un'analisi più complessa.
Beyond è anche una testimonianza di come il cambiamento climatico sta riducendo un ghiacciaio come il Vatnajökull, il più grande d’Europa. Qual è la situazione e che effetto fa vedere un ghiacciaio così imponente ridursi?
Il destino a cui sono destinati tutti i ghiacciai del nostro pianeta è identico. Vivere un'esperienza e raccontare la storia di un ghiacciaio come il Vatnajökull ti pone di fronte all'impermanenza della vita. Le cose non rimangono uguali a sé stesse. È una caratteristica fondamentale tanto della vita dell'uomo quanto di quella della natura, il fatto che le cose cambiano. Non sono molto d’accordo con l'idea di difendere o preservare lo status quo dei ghiacciai. Il ghiaccio è come un fiore o un ciuffo d’erba, è destinato a un ciclo in cui nasce, si sviluppa, cresce e infine muore. Questo però non deve limitarci al vivere solo questa forma di impermanenza, ma a diventare in custodi nel futuro della storia e del ricordo di questo elemento, che un giorno potrebbe non esistere più.
Come ha gestito l’aspetto intimo dell’avventura dell’esploratore con la necessità di raccontarlo a una camera e a un pubblico in un documentario?
È stato importante il lavoro fatto con lo sceneggiatore con chi mi ha aiutato a scrivere la sceneggiatura, le tante persone che in forme diverse hanno contribuito e hanno arricchito questo progetto. Non mi sento neppure più il protagonista di Beyond, ma al servizio di una storia. Alla fine è uscito questo nostro primo film, prodotto insieme a mia moglie, Francesca Urso, che lavora a stretto contatto con me da quasi vent’anni. Ci siamo trovati a muovere i primi passi in un mondo meraviglioso come il cinema e i festival.
C’è stato un momento in questa avventura in cui ha sentito una comunione particolare con l’incredibile natura che c’era attorno?
Ricordo un frammento, una notte in cui improvvisamente il vento si è placato, mentre fino a quel momento avevo vissuto nella tenda con i piedi puntati verso il tetto per non farla cedere sotto il peso del vento. Ho capito di avere una finestra di possibilità per raggiungere la fine del ghiacciaio, allora sono ripartito nel cuore della notte, cercando di mantenermi stimolato dandomi un ritmo vigile, 1, 2, 3, ripetuto come un mantra. In quelle ore ho percepito una completo fusione con quello che stavo facendo. Non ero più una persona che sciava su un ghiacciaio, mi ero diventato il ghiacciaio stesso. Forse non è stato il momento più iconico di questo viaggio, però è quello che più mi ha portato a stringere un legame con quello che stavo facendo e con l'elemento che mi stava ospitando.