Lacci: recensione del film di Daniele Luchetti con Alba Rohrwacher e Luigi Lo Cascio che ha aperto Venezia 2020
L'adattamento del romanzo di successo di Domenico Starnone diventa ora un film diretto da Daniele Luchetti, un ritratto famigliare e generazionale al vetriolo che ha aperto la Mostra del Cinema di Venezia 2020.
“Per stare insieme bisogna parlare poco, l’indispensabile”. Un bilancio dopo decenni di vita di coppia che suona più o meno letteralmente quello intorno al quale ruota il romanzo Lacci, scritto con successo di vendita e critica da Domenico Starnone nel 2014, diventato ora un adattamento per il cinema diretto da Daniele Luchetti.
È molto semplice da sintetizzare, il soggetto di questa storia. Aldo e Vanda sono sposati nella Napoli dei primi anni ’80. Il loro matrimonio entra in crisi quando lui si innamora della bella e giovane Linda. Li ritroviamo poi trent’anni dopo, sempre sposati, ma con i due figli ormai quarantenni. Sono due generazioni e due forme di amore, o meglio della sua assenza, che vengono raccontate in Lacci: quello matrimoniale e quello fra genitori e figli. “Perché me lo hai detto?”, domanda ripetutamente Vanda (Alba Rohrwacher) al marito Aldo (Luigi Lo Cascio), dopo la confessione di aver fatto sesso con un’altra. A quel punto la domanda diventa la consueta, “ma sei innamorato?” Gli occhi parlano per lui, e Aldo finisce cacciato di casa e solo sporadico testimone della crescita dei due figli negli anni successivi.
Lacci inizia come una classica storia d’infedeltà, con la donna vittima e parte fragile della coppia, addirittura incapace di reggere la notizia arrivando al tentato suicidio. Questo primo momento si sviluppa su toni accesi e urlati, specie da parte di Vanda, contribuendo poco a tratteggiare una rappresentazione al cinema più fedele delle dinamiche di coppia, in cui la donna sia parte attiva e non solo passiva, in quanto incapace di sopportare la perdita. Ma poi ritroviamo Vanda e Aldo a distanza di trent’anni, sempre sposati, questa volta interpretati da Laura Morante e Silvio Orlando, sempre privi di alchimia ma pronti a decolli di decibel. Un crescendo di incomunicabilità che arriva a superare la generazione, coinvolgendo i figli ormai cresciuti, con un'apparizione, assolutamente trascinante e liberatoria di Giovanna Mezzogiorno. Infatti più che una storia d’amore, questa storia ne è la sua tara.
Il film è il resoconto di cosa rimane quando l’amore finisce, e non è un residuo biodegradabile o molto piacevole. Fa rileggere il passato, anche quello colorato degli anni dell’innamoramento, con occhi diversi, e i legami, per l’appunto i lacci, qui intesi in molteplici significati, sono le uniche ragioni per cui si continua per trent’anni a stare insieme, al di là dell’unica degna e meritevole per cui varrebbe la pena farlo. Non si respira mai a pieni polmoni, e non è la mascherina con lui l’abbiamo visto, siamo sempre in interni soffocanti o in rari esterni che trasmettono disagio.
Si parla spesso con nostalgia della cattiveria della commedia all’italiana degli anni d’oro, e qui Luchetti cerca chiaramente, e meritoriamente, la via della sgradevolezza, “del filo spinato” come definisce il laccio ormai privo di amore. Una disamina di sentimenti che si sfilacciano in rancore e addirittura desiderio di vendetta, cambiando di generazione. Peccato che la scelta di cucire le varie fasi della vita privilegi le scene madri e non dia il tempo ai rapporti fra i personaggi di emergere attraverso momenti più quotidiani, se vogliamo più banali, ma più efficaci nel rendere a noi spettatori viva e pungente una montagna russa familiare che rimane un po’ distante.
- critico e giornalista cinematografico
- intervistatore seriale non pentito