La spada nella roccia, il capolavoro Disney a furor di popolo - recensione
Basso budget, ma nessuno lo nota: il trionfo della caratterizzazione accattivante dei veterani Disney negli anni Sessanta. Immortale sul serio.
Di questi tempi amiamo annunciare capolavori a ogni piè sospinto, ma nel 1963 pochi ormai attendevano capolavori a scatola chiusa dallo studio Disney. Se contestualizziamo infatti la produzione di La spada nella roccia, il cartoon diretto da Wolfgang Reitherman arriva nelle sale americane quando la "Golden Age" dell'animazione americana è morta e sepolta: quel magico periodo tra la metà degli anni Trenta e la metà dei Quaranta, quando le sale erano piene di cortometraggi animati Disney, Warner, Fleischer, MGM, quando Walt lanciò il lungometraggio animato a soggetto con Biancaneve e i sette nani nel 1937... tutto era finito. Hanna & Barbera si erano spostati in tv con animazioni spartane, il dipartimento di animazione Warner e la sua storica Termite Terrace avevano chiuso proprio nel 1963. Disney stesso aveva cercato di rilanciare l'animazione negli anni Cinquanta con opere sontuose e costose come Lilli e il vagabondo e La bella addormentata nel bosco, per poi realizzare che non valesse la candela, dopo il successo in proporzione più corposo dell'assai più economico La carica dei 101 (1961).
E dal punto di vista creativo e produttivo, La spada nella roccia nasce dalla strada aperta con la Carica dei 101. Walt è relativamente distante dalla supervisione del progetto, di fatto affidandolo al geniale story artist Bill Peet, che da solo compone sceneggiatura e storyboard del film, come aveva fatto già per le avventure di Pongo e Peggy. E' un periodo per certi versi felice: anche se il budget è limitato (come si evince dai fondali molto essenziali), l'assenza di aspettative dal pubblico e dal capo lascia i mitici autori disneyani liberi di agire su quello che sanno fare meglio. La spada nella roccia è uno dei loro titoli più significativi per calore, caratterizzazione e pura simpatia dei personaggi. Peet li progetta graficamente con Milt Kahl, uno dei "Nine Old Men", gli artisti colonne dell'azienda. Le animazioni vengono supervisionate da Kahl stesso insieme ai suoi inseparabili colleghi Frank Thomas, Ollie Johnston e John Lounsbery. Alla regia c'è appunto Reitherman, altro dei Nine Old Men ritiratosi dalle animazioni e primo regista disneyano a gestire qui da solo un intero lungometraggio.
Essenzialità dell'emozione e del messaggio, questa sembra essere la parola d'ordine nel copione di Peet, che adatta e semplifica enormemente il romanzo omonimo di T. H. White, un fantasy complesso, linguisticamente ricercato e anche più cruento. La progressione narrativa è molto lenta, episodica, non c'è alcun racconto epico, a dispetto del mito che pure Semola incarnerebbe: lo lasciamo un attimo dopo che il mito di Artù nasce. Quella che abbiamo di fronte è invece "solo" un'impagabile origin story che interpreta perfettamente la funzione più didattica della Disney, quella che Walt in persona incarna tra gli anni Cinquanta e Sessanta in tv, e quella dei valori sorretti dallo humor che da piccoli trovavamo sulle pagine di Topolino. Kahl confessò anni dopo che giudicava i protagonisti di La spada nella roccia e i loro rapporti come i migliori su cui avesse mai lavorato. C'è infatti un'enorme umanità nella dinamica tra insegnante e allievo di Merlino e Semola, dove il terzo incomodo gufo Anacleto, dipinto sulle prime come una spalla sarcastica, si mostra il complemento più razionale allo slancio pedagogico ma più estroverso di Merlino. Quest'ultimo a sua volta sembra preannunciare lo sfondamento totale della quarta parete del Genio di Aladdin (che lo citerà, guardacaso): un personaggio letteralmente fuori dal tempo, che incarna la meraviglia disneyana nel modo più divertito. E' epocale la sua chiusa: "Forse su di te ci faranno un film. Cos'è un film? Beh, è come la tv, ma senza la pubblicità".
Semola diventa un vero tramite per gli spettatori più piccoli: contrariamente a quanto si pensa, sono gli anni Sessanta a cementare nell'immaginario la Disney come "la casa che fa roba per bambini". Com'era già successo con Crudelia, il cattivo è tanto minaccioso quanto ridicolo: la meravigliosa Maga Magò è la massima incarnazione dello spauracchio dell'infanzia. Gli animatori con lei si scatenano: in tutte le scene che la riguardano, fino al climax della "sfida magica", Kahl-Thomas-Johnston-Lounsbery regolano degli standard qualitativi spaventosi per l'animazione 2D a mano libera, qualcosa con cui ancora oggi ci si confronta. Pensate solo a quanto meravigliosamente naturale vi risulti "vedere" Magò e Merlino negli animali nei quali si trasformano: è proprio dei grandi farci sembrare semplice quello che non lo è. Chi pensa alle inquadrature banali e alle ambientazioni al risparmio, quando su questi palcoscenici spartani si muovono attori di questo calibro?
Attenzione tuttavia a non liquidare la didattica della Spada nella roccia come paternalistica e ottusamente ottimistica. L'incredibile episodio della scoiattolina, innamorata del Semola-scoiattolo e poi straziata quando realizza che è un essere umano, è puro cuore, senza consolazioni: il punto di vista sull'esistenza è onesto, severo, affettuoso. Un modello ideale a cui guardare, dietro il quale c'è un vero rispetto dell'infanzia, che - come Disney diceva - è sempre stato il suo vero target: l'infanzia nei bambini e l'infanzia rimasta nel cuore degli adulti.
Un anno prima del loro trionfo con Mary Poppins, Richard & Robert Sherman prendono qui in consegna tutte le canzoni del film: tra loro e Walt era scattata una scintilla istantanea (come sarà ben raccontato nel film Saving Mr. Banks con Tom Hanks), e siamo certi che tutti ricordiamo almeno uno o due brani, a volte con punte di jazz. Andrebbe però anche osannato Roberto De Leonardis, l'adattatore italiano che per decenni ha mantenuto orecchiabili dialoghi e cantato nelle nostre versioni dei film Disney, come non sarebbe mai più accaduto.
Insomma, si canta, si ride, si pensa, si ammira: La spada nella roccia è un capolavoro perché non nasce già con questa nomea. Lo diventa lentamente, coi passaggi televisivi: si guadagna il suo status sul campo. E quando lo raggiunge, come accade sempre ai film che condividono questo percorso particolare, resiste indenne ai revisionismi, scolpito nella memoria collettiva.
- Giornalista specializzato in audiovisivi
- Autore di "La stirpe di Topolino"