John Wick 4: la recensione del film con Keanu Reeves
Arrivato al quarto, e presumibilmente definitivo capitolo della serie, Chad Stahelski porta tutto alle estreme conseguenze: durata, azione, bodycount. Azzerando però l'ironia, prendendosi troppo sul serio e sfinendo lo spettatore con uno spettacolo tutto sommato ripetitivo. Recensione di Federico Gironi.
Bang bang bang! Thud! Swiss! Sdeng! Boom! Ka-blam! Bang bang bang bang!. Crash! Smack! Bang bang bang bang bang! Crack! Ouch! Stud! Aargh! Bang bang bang! Sbraaam! Slash! CRASH! BANG BANG BANG! Shhtaab! Ka-boom! ARRRGH! Bam bam! Crunch! Ka pow! Splaat! SWISH! BANG BANG BANG BANG! Uggh! BAM! BANG BANG! Whack! BANG BANG BANG BANG BANG!
Ecco.
Moltiplicate tutto questo per quasi tre ore, e avrete un’idea nemmeno troppo approssimativa di cosa sia, e magari anche di come sia, John Wick 4, capitolo (forse) finale della saga che ha rilanciato la carriera di Keanu Reeves.
D’altronde, che tipo di film fossero questi si era capito fin dal primo John Wick, e che poi, capitolo dopo capitolo, questa serie si fosse posta l’obiettivo di diventare sempre “di più” - più lunga, più spettacolare, con più morti - si era capito e lo avevo già sottolineato, scrivendo di John Wick 2 e di John Wick 3.
C’è una coerenza, in fondo. Solo che, al cinema come nella vita, gli eccessi di coerenza rischiano di trasformarsi in rigidi dogmatismi non sempre utili allo scopo, in miopia, perdita di visione, di consapevolezza.
E peccato che qui, in questo John Wick 4, tutto sia di più (e troppo, decisamente troppo), tranne l’ironia, che è quella cosa che nella vita fa sempre bene e che nei film della serie bilanciava gli eccessi dell’azione.
Perché John Wick 4 si prende molto sul serio. Troppo sul serio.
Un trama, per quanto pretestuosa, c’è.
È semplice. John deve riconquistare la sua libertà, affrancarsi dalla Tavola (ora guidata da un marchese sadico e arrogante, Bill Skarsgård, una delle cose migliori del film), e per farlo si farà strada tra mille nemici e altrettanti cadaveri disseminati sul suo cammino. Un cammino che lo porta dalle sabbie del deserto a Parigi, passando per Osaka, New York, Berlino. Un cammino nel corso del quale si assisterà alla demolizione del Continental, che comporta il suo rientro nella Ruska Roma, e che ha come obiettivo l’eliminazione - tramite duello - del marchese.
Un cammino disseminato di avversari spesso anonimi, altre volte caratterizzati mai come in questo caso come villain cartooneschi (e qui il pensiero va a Scott Adkins, quasi irriconoscibile nei panni di un ubercattivo tedesco che pare la versione crucca e coi denti d’oro del Kingpin dell’Uomo Ragno), o che magari, forse, avversari lo sono fino a un certo punto, come dimostrano le storyline di altre new entries nel cast: un Donnie Yen versione Furia cieca, e uno Shamier Anderson killer scanzonato con cane-aiutante al seguito; cane che, come voleva la leggenda che ammantava il Chopper di Stand by Me, ama azzannare i rivali alle palle.
Per quanto ammirevoli possano essere le coreografie di azione; e per quanto la caratterizzazione di alcuni di questi personaggi, fumettistica fino all’eccesso, possa non essere male; e per quando la difficoltosissima salita dei trecento gradini della scalinata del Sacré Coeur da parte di John sia, in qualche modo perverso, avvincente nel suo essere interminabile, quasi escheriana, John Wick 4 altro non è che un costante e ripetitivo ripetersi di Bang bang bang! Thud! Swiss! Sdeng! Boom! Ka-blam! Bang bang bang bang!. Crash! Smack! Bang bang bang bang bang! Crack! Ouch! Stud! Aargh! Bang bang bang! Sbraaam! Slash! CRASH! BANG BANG BANG! Shhtaab! Ka-boom! ARRRGH! Bam bam! Crunch! Ka pow! Splaat! SWISH! BANG BANG BANG BANG! Uggh! BAM! BANG BANG! Whack! BANG BANG BANG BANG BANG!.
Con tutto l’amore possibile per il cinema di menare, per l’icona di Reeves e per le arti marziali, John Wick 4 non prende per sfinimento. John Wick 4 sfinisce e basta.
C’è un limite, un limite di sopportazione che riguarda quasi i diritti umani dello spettatore, che qui viene ampiamente superato. Perché 169 minuti, incessanti, implacabili, della stessa estetica, della stessa vista peraltro nei film precedenti (il più lungo dei quali aveva il pudore di durare quaranta minuti in meno di questo), sono oggettivamente troppi.
E se a un certo punto, nel film, il marchese cattivo di un Bill Skarsgård che si muove come e ha le stesse posture di papà Stellan e del fratello Alexandrer, quel marchese cui batte la palpebra e che ostenta un’affettazione tutta blasé, parla di colpo di grazia, beh: il colpo di grazia, qui lo dà Chad Stahelski, due volte: la prima con quello sgraziato “omaggio” ai Guerrieri della notte che va torcere lo stomaco per il dispiacere, e la seconda piazzando una post-credits scene scontata, prevedibile e di rara inutilità.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival