Alla ricerca di Dory: Recensione del sequel di Nemo targato Pixar
Andrew Stanton ritorna all'animazione esplorando l'handicap e i legami.
A un anno di distanza dalle vicende narrate in Alla ricerca di Nemo (2003), Dory è tollerata con affetto ma una certa fatica da Marlin, Nemo e gli altri pesci: i suoi problemi di memoria a breve termine le rendono difficile la vita sociale. All'improvviso, flash della sua infanzia riafforano nei suoi ricordi; spinta dal desiderio di ricongiungersi coi suoi genitori, Dory si riavventura nel vasto oceano. Saranno Nemo e Marlin questa volta a doverla salvare... anche da se stessa!
Dopo la sfortunata parentesi del flop dal vero di John Carter (2012), Andrew Stanton, una delle colonne Pixar, torna alla regia di un film d'animazione, con un progetto piuttosto delicato: Alla ricerca di Nemo è parte di quella schiera di lungometraggi pixariani che una decina d'anni fa hanno ridefinito il cinema d'animazione contemporaneo. C'erano un Oscar e tre nomination a sconsigliare l'azzardo di un sequel, ma c'erano anche 936 milioni di dollari d'incasso nel mondo a suggerirlo, perché non si può vivere solo di miracoli come Inside Out. Buone notizie: Alla ricerca di Dory riesce a convincerci di una sua necessità, al di là delle esigenze commerciali, ma prima di spiegarvi perché ci abbia dato quest'impressione, liberiamoci di qualche minore dovuta lamentela.
Dove il film perde il confronto con l'originale è nello stupore visivo: non c'è nulla in Alla ricerca di Dory che susciti meraviglia come nel prototipo. La tecnica della CGI è migliorata enormemente da allora, ma con l'evoluzione si è perso quello slogamento della mascella che ogni exploit Pixar faceva scattare. E' ancora possibile ottenerlo, come ha dimostrato Inside Out, ma è necessario uno sforzo in più, un volo d'immaginazione al quale Stanton ha scelto di non abbandonarsi, concentrandosi essenzialmente sulla vicenda. Sia chiaro che non c'è niente di sciatto in Alla ricerca di Dory, e ci mancherebbe: solo manca una ricerca visiva che vada oltre le divertenti metamorfosi del polpo Hank.
Il secondo scoglio è forse un rigore narrativo più lasso, dove la regola del "plausibile impossibile" disneyano (e non) viene a volte accantonata in funzione del divertimento più immediato: polpi e pesci in alcune scene passano sin troppo tempo fuori dall'acqua, e il climax ricorda più il caos goliardico di un Madagascar della DreamWorks che le sottigliezze Pixar di un tempo.
Questi due difetti, per qualcuno peli nell'uovo, possono per gli esigenti intaccare l'esperienza, che si mantiene tuttavia solida grazie a un pregio che sulla bilancia pesa molto di più: il tema che sorregge la protagonista e la storia intera. Alla ricerca di Dory è un film sull'handicap, interpretabile in senso più immediato (c'è chi ha pensato all'Alzheimer) o in senso più lato, per qualunque menomazione: non si dimenticano le scene in cui i genitori di Dory fanno di tutto per non farla sentire diversa, nascondendo sotto sorrisi e affetto la loro angoscia per il suo futuro. Non è un discorso urlato nè deprimente, ma emotivamente costruttivo e onesto, come l'accettazione della tristezza in Inside Out. Con questo sostegno narrativo solido, Stanton evita la trappola, nella quale sembra pure un po' cadere nelle prime scene, di gettare un film intero sulle spalle di un buffo comprimario logorroico: Dory non è il Cricchetto di Cars, per fortuna, e il suo dilemma ha la forza di reggere il racconto.
Escludendo la saga di Toy Story, questo Alla ricerca di Dory ci risulta finora il recupero Pixar più passionale: non ha probabilmente la compattezza di Monsters University ma sembra più motivato, ed è anni luce lontano dal caleidoscopio fine a se stesso di Cars 2. Ora non rimarrà che aspettare al varco Brad Bird e il suo Incredibili 2.
- Giornalista specializzato in audiovisivi
- Autore di "La stirpe di Topolino"