Videodrome: quarant'anni dopo, ancora un capolavoro che ci parla del presente
Debuttava nei cinema il 4 febbraio del 1983 quello che è probabilmente il più bello e il più importante film della filmografia di un regista fondamentale come David Cronenberg. Lo abbiamo rivisto, e non ha perso un briciolo di potenza e di attualità.
Quarant’anni fa, quando il mondo era tutto diverso, il cinema non ne parliamo, e la televisione deteneva un primato sociale, culturale e politico, una centralità nel (e del) dibattito pubblico, e un'influenza presso la popolazione che oggi ha oramai reso del tutto a internet e ai social, David Cronenberg lasciava tutti a bocca aperta con un film radicale, scioccante, rivoluzionario e potentissimo: Videodrome.
Vent’anni fa, quando io muovevo i primi passi nel mondo universitario, Videodrome era ancora IL film della postmodernità, quello da vedere, da sapere a memoria, da studiare e da citare per gli esami di cinema, di sociologia delle comunicazioni di massa, di antropologia culturale.
Oggi sono stato io a mostrare e spiegare ai miei studenti Videodrome, che invece non lo conoscevano e non l’avevamo mai visto, e che comunque, come quarant’anni fa, come vent’anni fa, sono rimasti a bocca aperta di fronte a un film che è ancora radicale, scioccante, rivoluzionario e potentissimo.
Di più: nel panorama un po’ plastificato del cinema contemporaneo, la visceralità di Videodrome risalta ancora di più.
E con buona pace del professor Marshall McLuhan, senza il quale forse Cronenberg non avrebbe mai girato Videodrome (ma nemmeno, forse, senza Guy Debord, e J.G. Ballard, e di sicuro non senza William S. Burroughs), e che in Videodrome è riflesso nel personaggio di Barry O’Blivion, quel McLuhan divenuto celebre anche presso i profani per l’affermazione “il mezzo è il messaggio”, basta immaginare che nel film ci sia la Rete al posto della TV, e tutto funziona ancora perfettamente, tutto è terribilmente attuale, tutto parla di quello che sta succedendo oggi.
Di essere stato profetico, a Cronenberg, è sempre importato poco.
E però fa impressione, vedere come in Videodrome si anticipano concetti come quelli di avatar, di nickname, di realtà virtuale e relativi accessori. Fa impressione vedere come i ragionamenti sul surplus d’informazione, sulla qualità, dell’informazione, sugli effetti di questa qualità sui fruitori, sull’abbattimento dei confini tra il reale e l’immaginario (il virtuale), e sull’incapacità di distinguere ciò che è vero e ciò che non lo è (lo stesso concetto alla base di Bussano alla porta di Shyamalan) siano perfettamente identici a quelli odierni che non parlano di tv, ma di siti, di chat, di social.
Perfino sul piano visivo, dell’immagine, Cronenberg ha guardato nel futuro: le immagini di Videodrome ci ricordano in maniera inquietanti i video delle esecuzioni di dell’ISIS, o quelli fuoriusciti da Abu Grahib o Guantanamo.
Già. Perché oltre che nei suoi temi, e nel modo in cui vengono affrontati, Videodrome trova la sua forza e la sua ragione di essere anche nella sua struttura visiva, nel gioco costante tra attrazione e repulsione.
Nella capacità che ha avuto Cronenberg di realizzare inquadrature fenomenali e indimenticabili. Nell'utilizzo di un linguaggio cinematografico che se all’inizio sembra giocare in maniera evidente con il neonoir - e che in un paio di inquadrature pre-finali (quelle di periferia metropolitana che conducono Max alla nave abbandonata, dopo l’uccisione di Barry Convex) sembra guardare con un pizzico di nostalgia al cinema americano di fine anni Settanta, per sancirne un definitivo superamento - passa poi a ingerire l’estetica del medium che sta raccontando, la tv, senza mai perdere l’identità e l’orgoglio del cinema, espandendo e stretchando lo schermo cinematografico come accade a quelli televisivi dentro al film.
Cronenberg nel cinema credeva e crede tantissimo.
Crede nel cinema e nel genere (nelle esigenze, del genere), e vede nel cinema il luogo, esterno al flusso mediatico della tv di ieri, e della rete di oggi, il luogo circoscritto, e perciò protetto, della riflessione, dell’analisi.
Della preveggenza, anche. La grande differenza tra Videodrome e La cosa, film gemelli di due grandissimi registi, usciti a un anno di distanza l’uno dall’altro, sta tutta lì: laddove Carpenter, più nostalgico e disilluso di lui, raccontava quello che la società era diventata, Cronenberg (che nonostante il pessimismo per il futuro e le mutazioni che comporta ha una grande fascinazione) racconta invece quello che sarebbe diventata, e che viviamo ancora oggi.
Immagini fortissime e perturbanti, una densità filosofica altissima e un voltaggio horror elevato ma mai eccessivo. Scelte di casting perfette: non solo James Woods, ma Debbie Harry, Leslie Carlson, Jack Creley, Peter Dvorsky e Lynne Gorman. Cinema, massmediologia, economia e una stravagante, sottile tensione quasi metafisica e spirituale. Senza dimenticare una vena costante, caustica ma sotterranea, di ironia sferzante, anche e soprattutto nei confronti di Max.
Di fronte a tutto questo, viene da chiedersi chi sarebbe oggi così pazzo da affidare a un regista i soldi per girare qualcosa di così intelligente e provocatorio. E chi, a parte lo stesso Cronenberg e una manciata di pochissimi altri, quasi tutti in giro da un bel po’, sarebbe in grado di concepire una cosa del genere.