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The Brutalist: il grandioso e ambizioso monumento al Cinema di Brady Corbet

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Arriva nelle sale italiane il film che ha vinto il Leone d'argento per la regia a Venezia, tre Golden Globe, e che si propone come uno dei titoli da battere agli Oscar, dove si presenta con 10 candidature. Ma The Brutalist è un monumento, o diverrà un mausoleo? La risposta la devono dare gli spettatori.

The Brutalist: il grandioso e ambizioso monumento al Cinema di Brady Corbet

Festival di Venezia 2024. Il giorno della proiezione stampa - serale - di The Brutalist. Grande agitazione.
Non solo perché è uno dei titoli più attesi del concorso, il nuovo lavoro di Brady Corbet, ex attore che si è dato alla regia con foga e successo, e con un’idea di cinema personale e quasi antistorica (su questo torniamo tra poco), come avevano dimostrato L’infanzia di un capo prima e Vox Lux poi; anche perché The Brutalist dura tre ore e mezza, e tutti sono agitati: e noi, quando mangiamo? Prima? Dopo?
Viene fuori, entrati in sala che è anche previsto un intervallo. Non l’ha previsto il festival, impietosito: l’ha previsto proprio Brady Corbet, che lo usa per separare i due atti del suo film, e che ha realizzato un apposito tappo ("tappo" è il nome tecnico dell’immagine che rimane fissa sullo schermo di un cinema) con tanto di conto alla rovescia che indica quanto manca alla ripresa del film (il conto parte da 15 minuti: c'è tempo per il bagno, per fumare, forse perfino per correre fuori a cercare di acchiappare un tramezzino).
Al termine del film, che si fosse mangiato prima o meno, molti erano entusiasti, alcuni altri perplessi, altri ancora poco convinti, ma nessuno era indifferente o disposto a scrollarsi di dosso il film con un’alzata di spalle. Il che, coi tempi e col cinema che corrono, non è cosa da poco.

È andata a finire che The Brutalist a Venezia ha vinto il Leone d'argento - Premio speciale per la regia, il primo di una serie di premi di cui sta tutt’ora facendo incetta e che lo stanno lanciando come uno dei film da battere nella prossima notte degli Oscar, dove si presenta con la bellezza di dieci candidature.
Intanto ha vinto tre Golden Globe (su sette candidature): quello andato a Adrien Brody come miglior attore in un film drammatico, quello come miglior regista andato ovviamente a Corbet e quello come miglior film drammatico (i Globe insistono a dividere i film tra drammatici da un lato e commedie e musicali dall’altro, col risultato che in questa seconda categoria ha vinto Emilia Perez, che di commedia ha ben poco).
In quell’occasione, ritirando il premio per il miglior film, Corbet ha detto: “Mi avevano detto che questo film non era distribuibile. Mi avevano detto che nessuno sarebbe venuto a vederlo. Mi avevano detto che il film non avrebbe funzionato. Non covo alcun risentimento per questo, ma voglio sfruttare questa occasione per incoraggiare e omaggiare i registi, tutti gli straordinari registi presenti in questa sala: i film non esistono senza i registi. Supportiamoli. Nessuno aveva mai sentito il bisogno di un film di tre ore e mezzo su un designer della metà del secolo scorso, realizzato in 70mm: ma ha funzionato. Per favore, rifletteteci”.
E qui torniamo all’antistoricismo di Corbet: perché in The Brutalist, ancor più di quanto non avesse fatto in precedenza, questo 36enne americano ha dimostrato di avere una fiducia non solo in sé stesso e nella storia che voleva raccontare, ma nel cinema, nella sua potenza, nella sua tradizione, nella sua storia e nella sua attualità, che - di nuovo - considerati i tempi che corrono, è quasi commovente nella sua convinzione, nella sua apparente insensatezza, nella sua tensione quasi herzoghiana. E questa fiducia, questa fede quasi mistica, di Corbet risuona dentro tutto The Brutalist. Nessuno può negarlo: nemmeno chi magari non sarà del tutto in sintonia col film.

The Brutalist: il trailer del film

Corbet ha preso Adrien Brody, proprio il Brody del Pianista di Polanski, per raccontare una storia che sembra parlare di altro, e che parla di altro, ma parla anche dell’Olocausto, e del peso che ha avuto nella vita di chi lo ha vissuto, patito, né è stato magari solo sfiorato.
Con quel peso ideale addosso, Brody diventa in maniera quasi trascendente László Tóth, architetto ungherese della Bauhaus scampato a Buchenwald, che emigra negli Stati Uniti, dove raggiunge il cugino Attila, proprietario di un piccolo salone di mobili. Quasi per caso, con Attila László si occupa della ristrutturazione dello studio di un miliardario, nella quale l’architetto mette tutto sé stesso. Ma il riccone, Harrison Lee Van Buren, sembra non gradire la sorpresa (la ristrutturazione doveva essere il regalo di compleanno di sui figlio) e caccia via tutti a lavori comunque ultimati.
Qualche tempo dopo Van Buren, che ha compreso - o al quale è stato spiegato - il valore del progetto di László, torna da lui per fare ammenda, e proporgli da mecenate un progetto ambiziosissimo: la costruzione di centro culturale, religioso e ricreativo, da intitolare alla madre da poco defunta.

E qui, nel rapporto tra mecenate e artista, sembra stare tutto il senso di The Brutalist.
Lì dove Van Buren, il mecenate, è anche il Capitale: un Capitale che lusinga, blandisce, seduce; che critica, sfrutta, prosciuga; che fa l’amico ma ti rinnega; che ti sospinge ma poi ti stupra; che ti esalta e ti abbandona. Lì dove László, l’artista, è il Genio, e del genio ha la sofferenza: del proprio talento, delle proprie aspettative frustrate, della dissipazione di sé, dei dolori indicibili che l’hanno forgiata. Ma allora, ecco che - un terzo atto imprevisto e sorprendente - tutto torna all’origine, alla storia dolorosa degli ebrei, alla loro persecuzione, all’orrore materiale e spirituale dei campi, che László porta sempre con sé, e che riversa nella sua creazione in maniera tanto segreta quanto evidente.

Come ogni brutalista che si rispetti, anche Corbet è ossessionato dalla forma e dalla materia della sua creazione: che se per il suo protagonista è il cemento, per lui sono i corpi degli attori (tutti, in qualche misura, messi a dura prova, feriti, testati dal tempo e dalla vita), la grandiosa fisicità dei luoghi, e ovviamente la fisicità della pellicola: quando ha ritirato il Globe per la regista, Corbet ha ringraziato - lanciando attorno a sé un’occhiata esplicita - anche la Kodak. Anche in questo aspetto, nell’aver girato utilizzando il formato panoramico VistaVision e stampato il film in 70mm, sta l’ambizione e la fede di Corbet nel suo film e nel cinema tutto.
Certo: resta da capire se, come il grandioso progetto di László che è al centro delle vicende del film, The Brutalist reggerà alla prova del tempo rivelando la genialità della sua concezione e i segreti profondi della sua struttura, o se diverrà un monumento spropositato, freddo, vuoto e un po’ lugubre non tanto alla grandeur di un autore, a un Cinema e a una Hollywood che non esistono più: il loro mausoleo.
I critici e i premi si sono espressi e si stanno esprimendo: ora è arrivato il momento di ascoltare gli spettatori.

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