Queer: Burroughs e Guadagnino, amore e mancanza, desiderio e cinema
Arriva oggi finalmente nei cinema italiani il nuovo film di Luca Guadagnino, un adattamento a lungo sognato del romanzo omonimo di William S. Burroughs pubblicato in Italia da Adelphi. Tutt'altro che un capolavoro mancato, come spesso accade in questi casi, è un film intenso e doloroso, intriso di purissimo cinema.

Quando lessi “Queer” per la prima volta, la scorsa estate, su una spiaggia miracolosamente semivuota, scrissi da qualche parte che più di ogni altra cosa quello di William S. Burroughs era un libro che parlava dell'ossessione amorosa e sessuale, e dei dolori che ne derivano, in maniera a tratti lacerante e commovente. E aggiunsi che, secondo me, tutto questo sarebbe stato anche al centro del film di Luca Guadagnino.
Lo so cosa state pensando, che mi piace vincere facile; ma comunque: quando poi Queer, il film, l’ho visto - non a Venezia, dopo, e forse è stato meglio - ho capito che avevo ragione, perché Guadagnino di quello, prima che di ogni altra cosa parla. E lo fa, questo parlare, col cinema: quindi anche con le immagini, oltre che con le parole e col racconto. E lo fa - il parlare, il cinema - benissimo.
Queer: il trailer del film di Luca Guadagnino
Guadagnino è un esteta - non un'estetista - e questo si vede sempre nel suo cinema. Si vede ancora di più in Queer, che fin dai primi istanti, fin da dei bellissimi titoli di testa (arte oramai quasi dimenticata) e dalle prime sequenze ambientate nelle Città del Messico che ha voluto ricostruita a Cinecittà, vive sul confine labile e mobile tra ciò che è reale (o il cinema rende tale) e ciò che è finto e artefatto (perché il cinema funziona così). Che poi è lo stesso confine su cui si muove il Lee di Daniel Craig.
Craig - che, diciamocelo, un grande attore di suo forse non è - qui è un grande attore, si dona con una generosità commovente a un personaggio del quale riesce a raccontare sbruffoneria e timidezza, allegra dissoluzione e autodistruttiva disperazione. Lee, un beone col cervello, un febbrile operaio dei banconi dei bar, instancabile quanto goffo e improbabile nel dedicarsi alla seduzione dell’altro. Un uomo alla ricerca di sé, e quindi alla ricerca di quella cosa che non ha e dentro di lui genera un vuoto che urla, morde, strepita e si dispera.
E quando Lee incontra Gene - che risulta a noi un personaggio odioso, grondante egoismo e altezzosità così come deve essere - il modo in cui Craig rende l’umiliarsi del suo personaggio di fronte a questo oggetto del desiderio (di contatto umano e profondo, e non solo sessuale) in manierà così autentica da risultare dolorosa, imbarazzante e ridicola tutto assieme. Ricordandoci i nostri dolori, i nostri imbarazzi, la nostra ridicolaggine.
Lee e Gene si muovono in un mondo, che è quello di Guadagnino, che è quello di Burroughs, dove - l’abbiamo detto - verità e finzione si accavallano in modo inconfondibile. Per via del cinema, per via delle traiettorie imperscrutabili del sentimento e del desiderio, ma anche per via dello stile dello scrittore americano, della sua letteratura drogata, allucinata, scomposta e ricombinata, eppure così diretta e potente.
Guadagnino, l’esteta, tanto nelle facciate della finta Città del Messico quanto negli stazzonatissimi completi di Lino di Lee, o nel decor delle peggiori e migliori bettole che egli frequenta (e nei loro frequentatori: si veda un magnifico Jason Schwarzmann), coglie perfettamente lo spirito di Burroughs, senza mai abidcare a sé stesso. E quando il viaggio di Lee si fa sempre più allucinato, Guadagnino trova il modo di raccontare l’allucinazione con una pulizia e una raffinatezza formali sorprendenti, esaltando quello che vuole dire davvero.
Non solo, certo, l’abbraccio impossibile tra Lee e Gene nella giungla boliviana, strafatti di yage, ovvero di ayahuasca, che appunto è il tentativo, appunto impossibile, di arrivare a quel contatto che a Lee crea un’astinenza più dolorosa di quella dagli oppiacei, ma anche quell’allucinazione cartesiana, quasi kubrickiana (in un film che invece omaggia Powell e Pressburger, e Fassbinder, e cita esplictamente Cocteau) nella quale l’occhio gigante di Lee spia sé stesso (e la sua fine) da una finestra.
Ecco: per tutto il film, Lee guarda, guarda e desidera. E nel guardare e nel desiderare c’è tutto quello che noi chiamiamo (e amiamo) cinema.