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Possessor: buon sangue non mente. La recensione del film di Brandon Cronenberg

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In attesa di vedere il nuovo Infinity Pool, che sarà presentato all'imminente Berlinale 2023, si può recuperare in streaming su Prime Video Possessor, il precedente film di Brandon Cronenberg, figlio del grande David, un tecno-incubo esistenziale che si fa forte (anche) delle interpretazioni di Andrea Riseborough e Christopher Abbott.

Possessor: buon sangue non mente. La recensione del film di Brandon Cronenberg

L’estetica di certi macchinari, e la presenza di Jennifer Jason Leigh in un certo specifico ruolo, fanno pensare a eXistenZ, inutile negarlo. E se sei figlio di un padre ingombrante come David Cronenberg è difficile affrancarsi del tutto dalla sua ombra, e dalla sua influenza.
Eppure è innegabile come Brandon Cronenberg, con Possessor, abbia fatto la sua cosa (nella sua casa, direbbe qualcuno): una cosa che se magari può omaggiare il cinema di papà, va comunque dritto in una direzione sua, chiara e personale.
Certo, ci sono certi aghi che si conficcano nel cervello, e altre diavolerie strane, come dei visori che sono assai cronenberghiani, ma qui, in Possessor, più che di body horror si tratta di tecno-thriller, e più che con le questioni del corpo si fa i conti con quelle della mente, con ragionamenti sì di natura sociale (e pure economica, se per questo) ma anche, e soprattutto, esistenziali.

La trama, semplice nella sua apparenza, complessa nei risvolti e dei significati, si riassume in fretta. Andrea Riseborough (bravissima, come al solito) è Tasya Vos, una killer che lavora entrando con la sua mente - possedendo, appunto - nel corpo di ignari personaggi cui fa compiere fisicamente gli omicidi. Quando però entra nel corpo di Colin (Christopher Abbott, molto bravo anche lui), allo scopo di uccidere il suocero, a capo di una ricchissima azienda di data-mining, qualcosa va storto, e rimane lì intrappolata, a lottare per il controllo del corpo con la coscienza di Colin.

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Quella di Brandon Cronenberg è chiaramente una distopia che ragiona sulle dinamiche del presente: non tanto per la questione delle uccisioni, anche se l’entrare con la propria mente nel corpo di un altro è una chiara allusione alla frequente, conscia o inconscia, tendenza ad assumere identità altre nella nostra vita online, quando su quello che lo spacciarsi per qualcosa di diverso da sé significa sul piano dell’equilibrio psicologico e in quello dei rapporti sociali.
Senza contare che anche il contesto economico, quello che oggi viene definito quello del “capitalismo della sorveglianza” ha un ruolo non indifferente.

La cura formale è estrema e modernissima. Nella fotografia fredda, astratta e nitidissima di Karim Hussain ricorda vagamente certe cose di Refn al netto - e che netto, quindi - dei feticismi al neon e non del danese; e in più Cronenberg azzecca alcune scelte visive di grandissimo impatto (le immagini in cui i volti, o le maschere, si sciolgono e si ricompongono e si sovrappongono).
Ma, soprattutto, quella che Possessor racconta è una storia - la storia di Vos, ma per certi versi anche quella di Colin - che pone domande piuttosto scomode sull’identità nell’era digitale, constringendo la sua protagonista a fare i conti anche col vero significato dei suoi legami affettivi e familiari, e perfino il suo ruolo materno, il tutto basato su un mix perverso di azioni volontaristiche e di spinte disumanizzanti che provengono dalla struttura economica.

Non si raggiungerà forse lo spessore concettuale delle opere migliori di David, ma con Possessor Brandon Cronenberg dimostra di avere una personalità registica ben definita, idee chiare e la voglia di evitare di fare un inutile calco del cinema di suo padre,  così come di appiattirsi sulle forme scialbe e anemiche di troppo cinema contemporaneo. E da questo punto di vista è innegabile che Possessor abbia la capacità di lasciare un segno, un malessere, un disagio in chi lo guarda, anche dopo la fine dei titoli di coda.

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