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Michele Riondino e il bisogno di un cinema che prenda posizione: incontro con l'attore e regista

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Ha ricevuto un premio intitolato a quell'Elio Petri che ha sempre rappresentato per lui un punto di riferimento assoluto per la sua applaudita opera prima Palazzina Laf. Abbiamo incontrato Michele Riondino ospite di Porretta Cinema.

Michele Riondino e il bisogno di un cinema che prenda posizione: incontro con l'attore e regista

Brillano gli occhi quando si fa cenno a un autore come Elio Petri, uno dei grandi autori del cinema italiano di denuncia sociale e politica, per troppo tempo lasciato in secondo piano. Michele Riondino è stato ospite a Porretta Cinema per ricevere proprio il premio Elio Petri per il suo esordio da regista, Palazzina Laf, già vincitore di tre David di Donatello. Un riconoscimento per opere prime e seconde in cui ha avuto la meglio su titoli come Vermiglio. Nella motivazione si legge, "In queste lacrime a ciel sereno. C'è un destino segnato. La mia terra ho trovato. Nell’opera di Michele Riondino riecheggiano le parole di La mia terra di Diodato, con il regista che afferra a piene mani la sua Terra e la porta in scena. Riondino non solo la racconta nelle sue contraddizioni, ma la rende protagonista di un urlo di rivalsa. Una messa in scena di un dramma umano che è volontà di dare nuova voce alla propria comunità".

Lo abbiamo incontrato a Porretta.

“Già quando Paola Malanga alla conferenza stampa della Festa del Cinema di Roma fece riferimento, parlando del mio esordio Palazzina Laf, al cinema di Petri io sono andato in brodo di giuggiole, naturalmente. Non ho fatto nulla per allontanarmi da questa associazione. Io sono uno spettatore del cinema di Petri, da sempre, mi ha condizionato terribilmente. Non solo nel linguaggio cinematografico, insieme a una generazione di registi e sceneggiatori. Quel modo di vivere cinema e teatro è quello che mi è più congeniale. Non riesco a immaginare una fase creativa priva di scontro. Non è mai un momento leggero quello della scrittura. Il cinema è politico perché alcuni cineasti mettono sé stessi all’interno dell’opera, senza mostrarsi troppo, ma già prendere una posizione rispetto ai temi che si raccontano è un modo di fare politica. Io guardo la realtà, la interpreto e do il mio punto di vista. È quello che facevano loro, Petri, Rosi, Germi, Montaldo. A me hanno insegnato questo.

Forse allora bisogna stupirsi che ci si stupisca che si faccia anche oggi un cinema del genere. Forse oggi è diventata un’eccezione fare un cinema politico, in cui si prende una posizione?

A me sorprende, sì. Poi mi dico che ogni periodo storico si porta dietro una trasformazione e si arriva a oggi, in cui abbiamo un cinema molto bello, ma fatto prevalentemente di immagini, che fotografa fedelmente la realtà e ce la mostra, creando una distanza, sia fra l’autore e questa fotografia che nei conforti dello spettatore. Io sono legato alla tradizione che vuole che un film possa raccontare la storia dello spettatore stesso, in cui possa ritrovare il contesto in cui agiscono i personaggi. Mi piace soprattutto prendere una posizione. Per me è fondamentale che l’opera rappresenti necessariamente anche il mio punto di vista. Non voglio fare politica nelle sedi istituzionali, e allora l’unico modo in cui voglio farla, visto che siamo tutti animali politici, è attraverso il mio cinema. E non mi si può impedire di prendere una posizione.

Qual è la situazione attuale di quella classe operaia che riecheggia un titolo di culto del cinema di Petri?

La classe operaia oggi è casa a far nulla, in cassa integrazione, almeno a Taranto, senza poter svolgere la propria funzione o contribuire alla società. Non l’ha scelto, ma è obbligata. Oggi è una classe operaia che non agisce. Le politiche industriali hanno creato questa situazione. Quella che era la lotta di classe raccontata in un film come La classe operaia va in paradiso è diventata una guerra fra poveri. È questo che dobbiamo raccontare, anche se si fa un gran parlare ci come il sottoscritto possa criticare la classe operaia o i sindacati che non agiscono per cambiare questo paradigma. Più che il film è stato il personaggio del viscido doppiogiochista fra i lavoratori, Caterino, che ha cambiato il mio rapporto con il territorio della mia città. È stato catartico. Mi è servito per staccarmi dal senso di colpa che portiamo noi tarantini. In un certo senso permesso quello che sta succedendo. Ho fatto pace con quelle caratteristiche, quella identità. A Taranto il film ha funzionato particolarmente perché i cittadini conosco Caterino, lo ritrovano all’interno della loro cerchia di amici e familiari. Mostrarlo a loro è stata un’elaborazione psicoanalitica di questo tipo di atteggiamento. E il dibattito che ne è nato è servito a prenderne le distanze. Per me è stato utilissimo.

Questa esperienza così intensa come regista sta influenzando la sua carriera come attore?

È una bella domanda, molto rischiosa. Non volevo recitare proprio per concentrarmi sulla regia, avevo paura di non avere il tempo per prepararlo, e in effetti non lo avuto, anche se paradossalmente sono 45 anni che lo faccio. Occuparmi della regia mi ha permesso, da attore, di sfogarmi. Non in tutti i film in cui ho recitato ho avuto la possibilità di condizionare le scelte. Non voglio peccare di presunzione, ma mi è stato utile poter lavorare con attori che si sono messi a disposizione di uno che era alle prime armi. Facevamo tutti lo stesso lavoro. Ho imparato di più come attore, dirigendo un film. Non l’ho fatto per diventare un regista, spero di farne un altro ma sempre con le modalità d’attore. Mi piace studiare i personaggi e collaborare facendoci tante domande.

Allora sarà difficile nel prossimo film non fare almeno un piccolo ruolo

Sì, però non credo che farò il protagonista.

Il secondo film sarà ancora su Taranto?

Di storie sulla mia città ne ho tantissime, studiando Palazzina Laf ne ho trovate molte altre. Ma no, non sarà su Taranto, ma sto invitando registi come Daniele Vicari o Andrea Segre a occuparsene. Sto dicendo a tutti, venite ci sono storie da raccontare, perché mi piacerebbe tanto che si parlasse di quella realtà e del meridione, di una città industriale. A Taranto si sono consumati esperimenti sociali che vanno analizzati. Sono sorpreso di come sia stato accolto il film, ormai da più di un anno a questa parte. Ho il terrore del mio secondo film, se Troisi diceva di ricominciare da tre io piuttosto rifarei una seconda opera prima. Ma non sarà su Taranto, anche se più in là tornerò. Sto lavorando su una storia che mi sta molto a cuore, ma non ho ancora il coraggio di definirlo il mio secondo film. Sto studiando, elaborando, leggendo, scrivendo.

Per quanto riguarda i nuovi ruoli, sta cambiando il modo in cui li sceglie?

Cerco sempre di selezionare al meglio. Sono molto umorale ed empatico

Anche perché, diciamolo, è molto strana la sua filmografia

Sì, e continuerà ad esserlo. Non ho un criterio, mi piacciono i ruoli che mi incuriosiscono, poi magari mi faccio un’idea diversa da quella del regista e mi ritrovo a fare il film di qualcun altro. È cambiato però il rapporto che hanno loro con me. Se prima quando timidamente commentavo o domandavo mi liquidavano, ora ho un po’ più di credito. Il rapporto con il regista è molto importante per me. E se c’è la possibilità di condividere diventa molto divertente. E divertirsi è importante nel lavoro che facciamo. Me ne sono accorto con Paolo Genovese che ne I leoni di Sicilia ci ha messo in una condizione di benessere.

Anche nella serie del Conte di Montecristo? Come dire di no a una storia così meravigliosa

Come dire di no anche a un confronto con un regista come Bille August. Prima del mio film ho girato con l’olandese Jaap van Heusen in The man from Rome, da cui ho rubato tantissimo. Per esempio il fatto di provare per una settimana nelle location con attori e la troupe, senza girare. È una cosa che ho fatto in Palazzina Laf ed è stata utilissima per capire al meglio le dinamiche, girando poi con maggiore consapevolezza. Bille August, invece, è uno che gira prima i primi piani e poi i totali, che è una follia nel nostro modi di fare cinema in Italia, ma è molto interessante.

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