Juliette Binoche nel mondo degli invisibili: incontro con l’attrice protagonista di Tra due mondi di Emmanuel Carrère
Ha dovuto rinunciare con dolore a produrre Tra due mondi, per volontà esplicita del regista, lo scrittore Emmanuel Carrère. Nonostante questo Juliette Binoche ha lottato per anni per portare al cinema la storia di lavoratrici invisibili. Incontro con la star del cinema francese, sempre attenta al sociale.
Invisibili, quasi tutte donne. Le prime a subire la precarizzazione del lavoro e la crisi economica. Fanno le pulizie nelle navi sulla costa francese della Manica e la giornalista Florence Aubenas le ha raccontate in un libro reportage che diventa ora un film diretto da Emmmanuel Carrère, con Juliette Binoche protagonista, insieme a un cast di attrici non professioniste.
Tra due mondi, in uscita il 7 aprile per Teodora Film, racconta di una scrittrice affermata, Marianne, che per preparare un libro sul lavoro precario prende una decisione radicale: senza rivelare la propria identità, si presenta all’ufficio di collocamento e viene assunta come donna delle pulizie sul traghetto che attraversa la Manica. Riesce così a toccare con mano i ritmi massacranti e le umiliazioni che affronta chi è costretto a quella vita, ma anche l’incrollabile solidarietà che unisce le sue compagne. La vera identità di Marianne, però, non può restare nascosta per sempre.
Ne abbiamo parlato con Juliette Binoche, in collegamento da Parigi.
È vero che il progetto nasce dalla sua voglia di portare al cinema il libro di Florence Aubenas, e che ha lottato per riuscirci?
Diciamo che ho parlato al telefono con Florence dicendole che il libro era molto cinematografico e il tema davvero importante e bisognava adattarlo assolutamente. All’inizio ha resistito, dicendo che avrebbe accettato solo se fosse stato coinvolto Emmanuel Carrère. L’ho chiamato e ho organizzato degli incontri a tre. Ma dalla prima conversazione alla realizzazione sono passati otto o dieci anni. È stata lunga e dura, ci sono stati momenti in cui ho lasciato perdere perché vedevo troppa resistenza da parte del suo agente e del suo editore. Poi al momento di farlo, Emmanuel non ha voluto che producessi il film. È successo un po’ di tutto, poi quando abbiamo girato è filato tutto in maniera armoniosa. Tra la preparazione e le riprese sono stati due mondi diversi, sul set eravamo in un piccolo mondo eccitante, con delle donne molto impegnate che avevano voglia di raccontare la loro vita di tutti i giorni. Per fortuna sono state delle riprese davvero felici, altrimenti non sarebbe certo stata una passeggiata.
Come ha preparato un ruolo in cui aveva il riferimento di Florence Aubenas stessa?
Due cose generali: la prima è che quando Emmanuel Carrère ha detto: non voglio che tu produca sono rimasta scioccata, perché lottavo per il progetto già da alcuni anni. Per fortuna ho avuto la reazione di dirgli: ascolta, per me è sminuente, ma questo film è più importante di me. È umiliante ma accetto perché le donne che fanno questo mestiere sono umiliate costantemente. È un modo per mettermi nei loro panni e cominciare la preparazione. È stato un po’ sorpreso dalla facilità con cui mi sono adattata, senza una crisi isterica. Ma trovo sia stata la migliore soluzione, se Aubenas ha scritto questo libro è per parlare di Marianne e delle sue condizioni lavorative. Allo stesso modo io, come attrice, dovevo aiutarla a parlare nel modo migliore del suo quotidiano. Poi quando sono arrivata sul set mi trovavo io stessa in condizioni particolari. Ero esausta e malata, avevo un’influenza che non passava, tossivo notte e giorno, ero in difficoltà fisiche e stava morendo mio padre, che era in ospedale. Tornavo a trovarlo ogni fine settimana, ero molto vulnerabile. La condizione migliore, se posso dire così, per entrare nel film.
Molte donne interpretano loro stesse, non sono attrici. Sono state intimidite quando è arrivata la star?
Emmanuel voleva fare una cena con tutte le attrici e gli attori del film. Io sono arrivata con la mia valigia nel loro mondo, a Caen. Come dicevo ero malata e stanca morta. Credo abbiano avuto pietà di me. In generale sono stata accolta in maniera molto calorosa, amano scherzare e ridere, parlano di loro facilmente, hanno una forte personalità, il che permetteva di parlare dei loro problemi. Hanno saputo presto che ero lì per aiutarle, non per approfittarmi di loro e usarle. Una cosa del genere si sente, non c’è bisogno di discuterne. Le aiutavo quando avevano paura o dimenticavano una battuta. Ho cercato sempre un modo per dargli fiducia, facendo emergere il meglio di loro.
La finzione si è sovrapposta un po’ alla vita reale anche per lei? Si è immersa in questa tematica sociale?
Quando ho letto il libro il tema mi sembrava importante, specie in un momento di crisi. Ancora di più con il cambiamento climatico, perché sono i più poveri i più colpiti. Sicuramente c’era l’intenzione di lanciare un allarme, non solo sulle loro difficile condizioni di lavoro, ma anche sulla possibilità di tornare a rendere umani questi invisibili. Qualcosa che dobbiamo fare tutti noi, nella nostra vita quotidiana, attraverso un’attenzione, uno sguardo, una parola inclusiva nei confronti di questi mestieri umili che rendono possibile la nostra vita in questa società. Fanno dei lavori fondamentali. Abbiamo bisogno di chi sistema, pulisce, mette ordine. Siamo noi a doverle ringraziare. Abbiamo bisogno di educare, di includere e non sempre dividere. Poi ci sono le maschere e il distanziamento che è diventato obbligatorio. Noi esseri umani dobbiamo resistere alla tentazione di non vederci più, di non parlarci. Una tentazione che esiste e, anzi, aumenta. Spesso non ci vuole molto.
Sente di aver imparato molto vivendo con loro? Di essersi arricchita dal punto di vista umano?
Quello che mi ha più colpito è il loro bisogno di ridere, di solidarietà e vita. È necessario fare comunità in una realtà che è anche solitaria, oltre che dura. Fanno chilometri a piedi, di notte e al freddo, per lavorare qualche ora qui e qualche ora lì, con dei figli, non arrivano alla fine del mese. È una vita di sopravvivenza, che richiede grande resistenza. Molti vivono situazioni di salute precarie, ogni aspetto della loro vita è fra parentesi. Come attrice ho bisogno di vivere interiormente quello che succede, fare dei paralleli, creare dei ponti.
Tra due mondi è concentrato sulle donne. Sono loro spesso afare questi mestieri difficili e poco raccontati. Aveva voglia di raccontare anche una forma di segregazione dei sessi?
Sì, è vero. In tutto il mondo la maggior parte di questi lavori sono svolti dalle donne. Non sono considerate, spesso disprezzate. Emerge la mediocrità di troppe persone, visto come vengono trattate. Qualche passo avanti si comincia a fare, con l'imposizione di orari decenti di lavoro. Per quanto riguarda le donne delle pulizie nelle navi, lavorare prima, mentre i passeggeri salgono e non ore prima in orari assurdi come mostrato nel film.
Le donne che recitano, loro stesse precarie, pensano che qualcosa possa cambiare per loro, grazie alla sua presenza, al film e prima al libro?
Non si fanno troppe illusioni. Se ne parla di più, sicuramente. Una di loro ha avuto un incontro con il suo proprietario, uno di quelli che ha cambiato gli orari nel senso di cui parlavo prima. È molto contenta e la cosa mi rende felice.
Crede che la pandemia stia migliorando o peggiorando la condizione di questi invisibili?
Quello che posso dire è sta a noi fare qualcosa, vederli, usare la gentilezza, ma tutto vedo che porta alla disumanizzazione. La crisi economica rischia di peggiorare la situazione e deve imporci maggiore vigilanza. Sono stata in queste settimane ad Atlanta per girare una serie e sono scioccata dal numero di persone che mendicano e vivono nella strada per il covid. Sono degli invisibili.
Come mai Atlanta?
Ho girato una serie televisiva lì, dopo aver girato nel Mississippi un thriller con Morgan Freeman, Paradise Highway, in cui interpreto una camionista. Una serie, The Staircase [su Sky a giugno ndr] con Colin Firth e Toni Collette.
Com’è andata con Emmanuel Carrère?
Non ci sono stati troppi scambi, quello che è certo è che mi ha dato fiducia al punto tale da avermi detto che mi sarei dovuta occupare io degli attori. Come regista ha deciso delle cose con il suo direttore della fotografia, è stato molto aperto e umile. Non aveva niente da provare ed è stato molto libero nel far utilizzare alle ragazze il loro vocabolario, il ritmo del loro linguaggio. È sorprendente considerando che si tratta di uno scrittore, visto che la maggior parere degli autori, che non lo sono, si dimostrano gelosissimi delle loro parole e non vogliono che si cambi neanche una virgola. Una cosa che ho trovato formidabile: se ne fregava completamente di una frase o un’altra, era importante che rimanesse l’idea e poi potessero declinarla nel mondo che gli apparteneva.