Armageddon Time: James Gray alla Festa del cinema di Roma con il suo spietato e bellissimo film autobiografico
Nel tour di presentazione del suo ultimo film, l'autobiografico Armageddon Time, che arriverà in Italia il 3 marzo, il regista James Gray ha incontrato stampa e pubblico alla Festa del cinema di Roma.
È un piacere enorme incontrare un regista come James Gray, un uomo colto, intelligente ed auto ironico, oltre che un regista estremamente consapevole del suo lavoro, autore a 53 anni di otto film di cui molti bellissimi e premiati, a cominciare dall'esordio con Little Odessa, vincitore del Leone d'argento a Venezia quando aveva solo 25 anni, nel 1994. Dopo due film diversi dal suo precedente canone urbano, Civiltà perdute e Ad Astra, stavolta Grat torna a New York con una storia autobiografica, dolorosa, sincera e senza filtri, sulla sua infanzia. Armageddon Time – Il tempo dell'Apocalisse è interpretato da due premi Oscar, Anthony Hopkins e Anne Hathaway, da Jeremy Strong e dal giovanissimo Banks Repeta, uscirà nei nostri cinema il 2 marzo, ma il regista lo ha accompagnato alla Festa del cinema di Roma, dove viene presentato nella sezione degli Esordi, appunto, anche Little Odessa. Quando gli è stato chiesto perché proprio ora avesse deciso di raccontare questa storia così sincera, ha risposto:
“E perché no?Ho fatto due film uno dietro l'altro, uno nella giungla amazzonica, che mi ha quasi ucciso e l'altro nello spazio, con Brad Pitt legato a dei fili, avevo bisogno di liberarmi della parte artificiale del lavoro e volevo riscoprire perché amo il cinema. Inoltre avevo rivisto di recente Amarcord per un incontro con le scuole, e non lo dico per ingraziarmi gli italiani ma Fellini è il mio regista preferito e ho trovato molto toccante il modo in cui aveva utilizzato il periodo storico, il fascismo e Mussolini per creare una tela più ampia”.
È stato difficile fare un film in cui si metteva tanto a nudo?
“Non mentre facevo il film perché c'è tutto il meccanismo delle riprese, le luci, la macchina da presa, gli attori e decisioni molto concrete da prendere. Mentre ero al montaggio però sono rimasto colpito da una sensazione di malinconia, perché ho pensato che tutte le persone di cui parlavo, tranne mio fratello, sono morte e questa è una storia di fantasmi. Ho riportato in via la mia famiglia, ma non c'è stato nessun tipo di catarsi, vorrei fare più film in questo registro, mostrandomi nella mia forma più stupida e inetta. Comunque sì, è stato difficile, spiacevole”.
Nei film di James Gray ci sono sempre attori eccezionali, che corrispondono perfettamente alla parte che ha in mente, famosi o meno che siano. Stavolta però non si trattava di interpretare personaggi inventati ma persone realmente esistite e vicine alla vita dell'autore.
“Stavolta è stato più difficile per me parlare con gli attori, perché volevano saperne di più sui miei genitori e io non volevo un'imitazione, quindi impedivo loro di prendere informazioni, mi chiedevano delle foto e io gli dicevo di no perché dovevano fare propri i loro ruoli e ad un certo punto l'hanno fatto. Mio fratello ha visto il film una settimana fa a New York e mi ha detto che gli ha fatto male, perché c'erano i nostri genitori, conosceva il ragazzino mio amico e gli sembrava come se il tempo si fosse congelato. Si tratta del mio passato. A me piace che gli attori improvvisino se restano nel personaggio, ed a un certo punto c'è una scena, dopo il funerale del nonno, dove l'attrice scende dall'auto e il padre dice “chiudi la portiera”, lei fa un gesto volgendo le spalle alla macchina e non era in sceneggiatura, non so come sia successo perché non ho dato loro indicazioni in proposito, ma erano esattamente le cose che avrebbero fatto mio padre e mia madre”.
Tra una risposta e l'altra, James Gray si complimenta per le domande, dicendo che sono le migliori che ha ricevuto da quando accompagna il film in giro. Sarà forse perché la stampa americana, come racconta, gli ha chiesto cose tipo “come è stato lavorare con Anne Hathaway”, mentre qua si parla dello stile e dei temi del film, le cose che più gli stanno a cuore. Sul discorso della memoria, dice che oggi:
“Con il tempo, una certa distanza comincia a ottundere la nostra percezione della catastrofe, io sono ossessionato dalla seconda guerra mondiale e leggi di tutto in proposito e su Hitler, anche quando sono nella vasca da bagno, tra lo sconcerto di mia moglie. È un argomento molto presente, io sono del 1970 e i miei genitori e soprattutto i miei nonni ne parlavano sempre, mentre oggi è più un'astrazione, è come se vi chiedessi i dettagli su chi era Gengis Khan. Tutti sanno che è stato uno cattivo, che ha ucciso molte persone, ma non conoscono la sua storia, così come i dettagli su Hitler, e il diavolo sta nei particolari. Magari tra trecento anni di lui si saprà molto poco. Tutto questo mi terrorizza, questa mancanza di cuore e la crudeltà, lo sdrammatizzare con una battuta, perché, abitudine peggiorata coi social media, riconoscere la verità è molto doloroso. In America non ci piace raccontare la verità sulla storia ma siamo bravissimi a vendere prodotti”.
Tra le molte risposte date, che rivelano la natura profonda di James Gray come artista, che si definisce un artigiano e sottolinea l'importanza di fare al meglio il proprio lavoro, senza guardare al successo o ai soldi ma restando concentrati su quel che conta davvero, ci piace concludere con la sua risposta sull'esistenza del sogno americano, che nel film illude e delude i suoi protagonisti:
“Per funzionare ogni civiltà richiede un mito, una bugia. È mai stato vero? No, ma ci serviva. Parte del problema dell'era moderna, dagli anni Ottanta in poi è stato non la mancanza di crescita economica, che c'è stata, ma il fatto che un numero sempre più piccolo di persone assorbe una somma sempre più ampia dal sistema, per cui il mito sta iniziando a morire e di conseguenza la cultura muore. Oggi c'è l'idea del successo da ottenere senza sviluppare un mestiere, senza sforzo, e il sogno di molti ragazzi è fare l'influencer, ma che vuol dire, chi è? Credo che ci sia una specie di vuoto, di mancanza d'anima, viviamo in una società post ideologica dove conta solo il prodotto. C'è gente che sta 10 ore in fila per prendere l'iPhone 72. Congratulazioni, hai aspettato un miliardo di ore per un cavolo di telefono. Ti rendi conto che la forma mentis vive del potere dell'azienda, le persone vivono per i prodotti, l'arte e l'istruzione sono l'unico modo per contrastare questa tendenza”.