Il mistero dei templari, la recensione della serie di National Treasure

08 febbraio 2023
3 di 5

La serie di National Treasure su Disney+, spin-off della saga del Mistero dei Templari, è un divertimento rivolto a un pubblico di famiglie e soprattutto ragazzi: da questo punto di vista, funziona con onestà. La nostra recensione.

Il mistero dei templari, la recensione della serie di National Treasure

Un tesoro "panamericano" protetto da generazioni, incrocio delle culture azteca, maya e inca. Jess, una ragazza messicana orfana, che eredita quella ricerca dal suo papà scomparso e dalla sua mamma defunta e ridicolizzata per i suoi studi archeologici. Billie, una perfida mercante d'antiquariato pronta a tutto. Gli amici di Jess contro la gang senza scrupoli di Billie. Una corsa contro il tempo in nome dell'identità. Questi gli ingredienti principali di Il mistero dei templari, in originale più appropriatamente National Treasure: Edge of History, spin-off della saga omonima cinematografica, interpretata da Nicolas Cage in Il mistero dei Templari (2004) e Il mistero delle pagine perdute (2007). Leggi anche Il mistero dei templari - La serie, Catherine Zeta-Jones cattivissima: "Linfa nuova per queste storie"

In sempiterna attesa di un terzo film che non si è mai sbloccato, c'è un motivo per cui i fan della saga dovrebbero dare una chance a un prodotto che, almeno sulle prime, si presenta con un target più giovanile? Perché in effetti i primi episodi di Edge of History dispongono le pedine enfatizzando molto le dinamiche d'amicizia e sentimentali tra i quattro ventenni amici protagonisti, appunto Jess (Lisette Olivera), la sua miglior amica Tasha (Zuri Reed), un amico che forse vorrebbe essere qualcosa di più (Oren, interpretato da Jordan Rodrigues) e il più-o-meno-fidanzato di Tasha, l'aspirante allegro imprenditore Oren (Antonio Cipriano), spalla comica. Nonostante la partecipazione simbolica di Harvey Keitel e Justin Bartha dalla saga ammiraglia, fondamentale ai fini della storia la prima, cosmetica la seconda, la superficialità delle situazioni fatica a coinvolgere. L'apparizione di un terzo incomodo sexy, l'aspirante cantante Liam (Jake Austin Walker), non migliora le cose, con dinamiche telefonate a misura di adolescente.

Non bisogna tuttavia perdere di vista che la produzione è rimasta in mano a Jerry Bruckheimer, che nei dieci episodi, una volta disposte le pedine, comincia con la sua esperienza e con i suoi autori e registi (tra i quali Mira Nair!) a costruire pazientemente sulla familiarità che si è creata coi personaggi, a patto che si sia data loro una chance. La posta in gioco sale via via, così come il tasso di relativa calibrata violenza, quel tanto che basta a rendere credibili i rischi e a evitare per un soffio la trappola della caduta nell'infantilismo. Riequilibrato il rapporto tra la percentuale di giovanilismo e suspense avventurosa, Edge of History mette meglio a fuoco le caratteristiche principali della serie: spirito alla Indiana Jones rivolto al continente americano e risoluzione di enigmi che, risolti a una rapidità inversamente proporzionale alla loro complessità, risultano se non credibili almeno interessanti, quando suggeriscono una lettura culturale.

Gli elementi di Edge of History che sembravano disposti alla rinfusa cominciano ad amalgamarsi bene, anche grazie alla costruzione della storia concepita dai coniugi Cormac & Marianne Wibberley, già cosceneggiatori dei film e qui showrunner della stagione. Perché c'è un'evoluzione rispetto ai lungometraggi: la necessità di inclusività sentita da Hollywood e dalla Disney in particolare porta qui a un allargamento del concetto di "America", rispetto al patriottismo che ormai sarebbe potuto risultare monotono. I protagonisti non sono soltanto etnicamente vari, ma Jess è una messicana negli Stati Uniti sotto DACA, cioè senza cittadinanza ma in diritto di rimanere negli USA con permessi rinnovati ogni due anni, posto che lavori e che la sua fedina penale rimanga intonsa. Il gemellaggio naturale della ragazza con i suoi amici, l'uso della lingua spagnola che affiora via via nei dialoghi, arrivano a tessere un legame subliminale tra il Nord America e il Centro/Sud America, che però si mostra orgogliosamente non come predicozzo, ma come fotografia di una realtà che le giovani generazioni già vivono. Il tesoro ha un valore simbolico di rivendicazione identitaria di popoli divisi dalle conquiste europee.

Quando realizzi che questo lavoro, a volte evidente a volte sottotraccia, ti è entrato dentro, ormai fai il tifo per la combriccola improvvisata che sfida una spietata Catherine Zeta-Jones nei panni di Billie. La produzione è ben calibrata per offrire un allestimento dei set forse non all'altezza del cinema, ma nemmeno tanto economico da attivare il ridicolo involontario. Verso il finale poi le sceneggiature sanno ricavare discreti colpi di scena, anche per lo spettatore che ha mangiato la foglia su alcuni personaggi sin dall'inizio, rilanciando sempre la suspense con la furbizia professionale che una vecchia volpe come Bruckheimer, reduce da Top Gun Maverick, conosce bene. Alla fine Il mistero dei templari non è particolarmente memorabile ma funziona, senza arrendersi alla nostalgia del fandom dei film, ma proponendo una sua identità. Soprattutto, riesce a funzionare per un pubblico di famiglie, in pieno stile disneyano dal vero, al quale Bruckheimer ha in passato dato il suo contributo, con Pirati dei Caraibi e appunto i film con Cage.       



  • Giornalista specializzato in audiovisivi
  • Autore di "La stirpe di Topolino"
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